Lettera aperta di un preside: “Genitori, basta hashtag sul bullismo, ripartiamo dalla vita reale”

Il dirigente scolastico della scuola media Mazzini di Roma: “Se pensate che vostro figlio non sia né vittima, né carnefice, né spettatore di atti di bullismo preoccupatevi ancora di più perché vi sta nascondendo qualcosa”

Diciamo la verità, non se ne può più. Non se ne può più di slogan anti-bullismo preceduti dall’hashtag#. Ormai li leggiamo ovunque e non ci colpiscono più. Sul bullismo si sono moltiplicate miriadi di campagne informative dai nomi più disparati: smontailbullo, maipiùbullismo, stop al bullismo, no al bullismo, un nodo blu contro il bullismo (potrebbe seguire elenco lunghissimo….comprendente anche “Un sms per dire no a droga e bullismo”…Mah!?!?). Numerosi personaggi pubblici hanno fatto da testimonial per queste campagne: Totti, Alex Zanardi, Ambra Angiolini, Alvaro Soler, Mika (ed anche in questo caso l’elenco potrebbe essere molto lungo).

Sia chiaro: i messaggi lanciati da queste campagne e da questi testimonial sono tutti positivi e costituiscono certamente un importante contributo alla diffusione di una necessaria sensibilità verso il tema. Ritengo però che ormai siamo all’indigestione: quando il messaggio è così ripetuto alla fine rischia di diventare inefficace. E’ diventato troppo scontato dire no al bullismo; se si entra in una classe e si chiede agli studenti di parlare del bullismo, essi sanno cos’è il bullismo e sanno dire per quale motivo il bullismo è un fenomeno negativo e socialmente rilevante. Ma nonostante tutto questo, gli episodi di bullismo continuano ad esistere, si trasferiscono in rete prendendo la forma più ostile e subdola del cyberbullismo e le campagne informative a tappeto nel tempo di un clic (o di un touch) si dissolvono e si ripiomba in un vortice di incertezza e di diffusa inefficacia.

Le campagne informative fatte in tv, a scuola, sui social stessi, servono ma non risolvono. La soluzione sta nel coraggio di educare, che non è coraggio di vietare anzi… è coraggio di educare alla capacità di compiere scelte consapevoli, feconde e utili per se stessi e per gli altri. All’inizio di un recente incontro che si è tenuto a scuola con i genitori ho fatto un invito molto preciso: “non preoccupatevi di chi non c’è oggi, magari di quel genitore che dovrebbe proprio partecipare a questi

incontri perché suo figlio ne combina una dopo l’altra, no, preoccupatevi dei vostri figli perché sicuramente sono coinvolti da questa problematica come vittime, o carnefici o spettatori. E e se pensate che vostro figlio non sia né vittima, né carnefice, né spettatore preoccupatevi ancora di più perché vi sta nascondendo qualcosa!”

Insomma siamo tutti interessati e appassionati a questo tema e la cosa più importante che possiamo fare è educare, parlare con i nostri figli ma soprattutto ascoltarli; e poi ci vuole coerenza: come si può mettere in guardia i nostri figli dai pericoli dei social e delle chat quando ne siamo noi i primi e spesso pessimi fruitori? Educare significa prevenire: un bambino che rispetta il proprio compagno di banco o di classe lo rispetterà anche in rete; un bambino educato a saper leggere ed interpretare le emozioni proprie e degli altri non lederà la dignità altrui perché sarà in grado di immaginare la sofferenza che potrebbe provocare attraverso diffamazioni o offese online.

Alcuni adulti sostengono che bisognerebbe fare più formazione e informazione agli studenti sui rischi dei comportamenti in rete: è vero, non c’è dubbio che l’informazione non è mai abbastanza. Ma è altrettanto vero che i ragazzi sanno già tutto, molto più di noi. E non solo sanno tutto sul funzionamento dei cellulari, dei social e delle chat; ma anche sui rischi che si corrono. Ne sono consapevoli. È un’esperienza che sto sperimentando nel nostro “parlamentino”: stiamo affrontando proprio questo tema, quello dell’uso (e dell’abuso) dei cellulari. Ebbene: gli studenti dimostrano consapevolezza dei rischi. Eppure non ne sono esenti, non si sentono al riparo. Sanno che l’uso del cellulare crea dipendenza ed assuefazione; che dietro l’anonimato si possono commettere anche dei reati, quindi con possibili risvolti penali; che è impossibile togliere una foto postata su un social anche se per poco tempo; che esistono limitazioni di età con riferimento all’accesso ai social network; che alcune app sono costruite proprio per fare in modo che i ragazzi vi impieghino molto tempo. Quindi i ragazzi conoscono molto bene la realtà tecnologica e le sue implicazioni. Ciò che manca loro è la capacità di porre dei limiti, di governare il tempo, di stabilire e gestire relazioni.

Ma tutte queste “competenze” si praticano in rete se prima si acquisiscono e si maturano nella vita reale. Non dobbiamo preoccuparci della rete, dei social, dei cellulari se prima non ci preoccupiamo di educare i giovani al rispetto di se stessi e degli altri, al senso del limite, all’affettività relazionale. I giovani che acquisiscono modelli comportamentali sani li trasferiscono in ogni ambito della loro vita, rete compresa; anche lì staranno al sicuro. I giovani che cresciamo con l’angoscia che il mondo è pericoloso e che pretendiamo di iper regolare a scapito di un’educazione emotiva che invece spesso trascuriamo, potrebbero fuggire in rete a cercare quelle risposte affettive che hanno invano cercato e non trovato nel mondo degli adulti, troppo impegnati a dare regole in modo spesso incoerente e a fare noiose prediche invece che ascoltare, partecipare, condividere. Forse i giovani hanno bisogno più di questo che di un corso sui rischi del cyberbullismo. #ascoltiamoli.

* Dirigente scolastico della Scuola Media Statale Sperimentale «G. Mazzini», 

Istituto Comprensivo «Via delle Carine» di Roma