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Note e commento stilistico

Coelum Circolo Astrofili Talmassons
Cortesia rivista "Coelum - Astronomia" e
Circolo Astrofili Talmassons


[1,1] Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad diuina non erigatur ac tota mente consurgat, utique ubi nouum aliquod e caelo miraculum fulsit. Nam quamdiu solita decurrunt, magnitudinem rerum consuetudo subducit: ita enim compositi sumus ut nos cotidiana, etiamsi admiratione digna sunt, transeant, contra minimarum quoque rerum, si insolitae prodierunt, spectaculum dulce fiat

[1,2] Hic itaque coetus astrorum, quibus immensi corporis pulchritudo distinguitur, populum non conuocat: at cum aliquid ex more mutatum est, omnium uultus in caelo est. Sol spectatorem, nisi deficit, non habet; nemo obseruat lunam nisi laborantem: tunc urbes conclamant, tunc pro se quisque superstitione uana strepit. 

Nessuno è così tardo e ottuso e chino a terra da non rialzarsi e volgersi con tutto il suo spirito verso le cose divine, soprattutto quando dal cielo ha brillato qualche insolito prodigio. Infatti, finché gli astri si muovono come il solito, l’abitudine li priva della loro grandezza: infatti, siamo fatti in modo tale che le cose che accadono ogni giorno, anche se sono degne di ammirazione, ci sfuggano; al contrario lo spettacolo degli eventi anche più insignificanti, purchè insoliti, diventa piacevole.
[2] Perciò, questa schiera di astri di cui si adorna la bellezza dell’’immenso universo non chiama a raccolta la folla: ma quando è cambiato qualcosa rispetto al solito, gli occhi di tutti si volgono al cielo. Il sole non ha spettatori, se non durante le eclissi; nessuno osserva la luna, se non quando è oscurata: allora le città gridano tutte insieme, allora ciascuno si lamenta a causa di una vana superstizione. 

Commento

L’incipit del VII libro richiama immediatamente l’intento fondamentale dell’opera: analizzare quali effetti debba produrre l’osservazione della natura nell’animo del saggio, che deve evitare l’atteggiamento del popolo, vittima di ignoranza e superstizione. Seneca affronta subito il nodo fondamentale dell’osservazione del cielo e in particolare delle comete: la gente comune leva con angoscia lo sguardo verso l’alto quando si manifesta un fenomeno diverso dal solito, temendo che le regole dell’universo siano sconvolte e il fatto nuovo sia foriero di sventure o catastrofi naturali. Il filosofo romano non coglie la natura psicologica del legame che gli antichi ponevano tra la regolarità dei fatti celesti e il caos di questo mondo e il bisogno della gente comune di essere rassicurata sul suo destino. Egli si limita a condannare la superficialità di chi non sa riconoscere la meraviglia della natura nella quale viviamo (o forse è meglio dire vivevamo) quotidianamente: le anime più sensibili si stupiscono di fronte alla straordinaria bellezza di una notte stellata anche se non accade nulla di straordinario. Il saggio dunque saprà cogliere in questo spettacolo il segno dell’intervento divino e si innalzerà con la mente dalla miseria della condizione umana alla pace della contemplazione. Dunque non terrori superstiziosi ma sapienza ed equilibrio interiore dovrà ispirare lo spettacolo della natura a chi ne sa capire la grandezza. Questo atteggiamento, che il Medioevo non negherà ma interpreterà in chiave cristiana, non viene negato dalla scienza, anzi, se ne trovano testimonianze negli scritti di personaggi quali Galileo, Newton e Einstein. Forse il motore della conoscenza scientifica è proprio questo stupore di fronte alla bellezza dell’universo e il tentativo di capire quali leggi lo regolino e quali possano essere le sue origini.