Karma

 

Si sostiene spesso, ed a ragion veduta, che a noi occidentali – che poi abitiamo ad est dell’est – le profondità del pensiero orientale restino inaccessibili; ci sono però delle idee che attraversano spazi geografici, mappe mentali e secoli di sedicente progresso: il karma è una di quelle.

C’è chi lo identifica con il destino, soprattutto quello che prende la forma della sfiga e lo chiama karma negativo; ma anche con le buone cose che capitano – lo chiama karma positivo – alla stregua dell’avverarsi di uno di quegli oroscopi felici che brunovespa&co. propinano a fine d’anno. Perché di fondo ci sembra importante riconoscere all’opera sotto la traccia dei nostri giorni una forza superiore che tutto attraversi, un superteste dei nostri entusiasmi e delle nostre lacrime, in ogni caso una quadra che dia unità ai frammenti che vediamo e che siamo.

C’è chi intende un karma che affonda le radici in null’altro che noi stessi e nel nostro passato remoto o recente, ed ecco riaffacciarsi i sempiterni discorsi di colpa e merito. Che si tratti di vite precedenti  (è il karma declinato secondo il samsara, il ciclo indiano delle rinascite) o di quanto combinato da piccoli o un po’più cresciuti, il karma viene a costituire la sanzione, il premio o la pena secondo un’atavica idea quantitativa di giustizia superiore ed impersonale: un’ineffabile bilancia che garantisca il ragioniere che c’è in noi circa il fatto che i conti tornano, che troppo male non resti impunito e che quel po’ di bene sia servito a qualcosa.

 

Idee e simboli karmici attraversano tutte le culture e per ciascuno di noi costituiscono una confortante tentazione: attribuire tutto ad altri, o troppo a noi stessi, in ogni caso cercare un ordine che giustifichi le cose… In realtà c’è molto di meno o molto di più a seconda di come la si metta: qualcosa di ciò che decidiamo e facciamo incide davvero sui nostri giorni plasmandone la forma, e tuttavia nessuno può illudersi di essere l’artefice di sé o l’inventore da zero di qualche cosa. È poco ma non è nulla, il karma così come lo vogliamo qui intendere.

Forse il karma negativo del tuo coetaneo libico o afghano non affonda le sue radici in passate esistenze ma nelle resistenze che in passato chi poteva non ha voluto opporre ai falciatori di vite e diritti; forse il karma che condanna batterie di galletti e maiali a vivere magri di soddisfazioni per morire grassi di  tedio non dipende da loro colpe in vite passate ma dalle alterne miserie ed obesità dei loro simili umani.

Ecco, forse il tuo karma buono è nell’angolo di prato dove hai deciso di accompagnare il tuo libro di scuola perché lui possa parlarti e tu, almeno una volta, ascoltarlo. Forse, e lo spero davvero, il tuo karma buono è in quel vestito colorato e leggero che hai scelto perché ti ridisegni la vita. O almeno qualcuno dei suoi giorni.

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E se per un giorno…

Semel in anno licet insanire, una (sola) volta all’anno è lecito dare di testa.

In tempi di magra era il giorno di grasso consentito prima della quaresima, perché non ce n’era e perché non era bene abituarvisi. Nel tempo dell’opulenza quasi ci schifa un martedì grasso e sogniamo piuttosto uno slim day.         In tempi di rigidi e gerarchici poteri era la festa dei folli, quando l’ultimo dei poveracci era fatto re ed il re diveniva uno tra i tanti; sempre solo per un giorno, perché pure qui non era bene abituarvisi. Nel tempo della fantademocrazia pseudorappresentativa, in una mano la matita non-copiativa del seggio e nell’altra il telecomando che spalanca un codice di televoto, vorremmo non ritrovarci gli stessi nomi e gli stessi volti di qua e di là, liste bloccate come i palinsesti, e dover sperare che siano i comici a salvare il mondo.       In tempi di pochi padroni del mondo era la sfilata dei carri allegorici tra due ali di un pubblico che ne dileggiasse i difetti (per un giorno non fa male, come sapeva Cesare celebrando i suoi trionfi). Nel tempo in cui i poteri forti diventano l’allegoria di se stessi, con vecchietti mascherati da intrattenitori di ragazzine,  ragazzine mascherate da compagne di serate (c’è la crisi), palazzinari e paparazzi sciacalli mascherati da pentiti giusto il tempo della custodia cautelare per non inquinare le prove e poi tutti ai domiciliari con il telelavoro che fa girare comunque gli affari; in questo tempo, vorremmo immaginare capitani d’industria, di finanza e di stato un po’ più giovani e soprattutto capaci del colpo d’ala nel tempo a breve scadenza del loro mandato e poi via a giocare con figli e nipotini (quelli veri). Una cosa normale, da non costringerci alle solite barzallette.

Che farcene allora di un martedì grasso? Resta la stessa speranza che anima la festa ebraica di Purim, che un giorno le sorti saranno rovesciate come per gli ebrei in esilio e in particolare per Mardocheo: vittima designata alla forca dall’astio del primo ministro Amman, la sorte fa sì che con questi scambi il posto ed il destino. Una sorte che assume il volto della nipote Ester, eroina biblica connotata da magnifica bellezza. Risparmiamoci oggi, 8 marzo, la prima parte del libro di Ester: selezionata con tanto di fase regionale e nazionale, giudicata per una notte nel talamo del sovrano (che aveva ripudiato la prima moglie per non essersi presentata a mostrare la sua grazia – proprio lei, Sua Grazia! – ad un festino di ministri avvinazzati), e soprattutto persuasiva con il re grazie al più classico dei finti svenimenti. Non proprio il manuale dell’emancipazione femminile.

Eppure, come per il folle-sapiente Schlomo nella scena finale del film Train de Vie che alla festa di Purim si ispira, anche solo un giorno con un po’ di immaginazione al potere e un po’ più potere di immaginazione può consentire la speranza e la lotta per migliorare le umane cose. Un giorno in cui l’aguzzino sia costretto dietro le sbarre sorvegliato dal prigioniero, un giorno in cui il cuoco che butta lì le cose mangi la minestra riscaldata dalla vecchietta senza denti, un giorno in cui l’amante sfregoloso/a assapori la routine della vita del partner e questi l’ebbrezza della tresca con il suo/la sua, un giorno in cui l’operaia dei turni sulle linee delocalizzi il general manager e temporalizzi i suoi affetti, un giorno in cui il celebrante continui lui, sì, a lavare i piedi – perché anche questo è celebrare il mistero – ma non solo quelli selezionati e puliti del giovedì santo. Se fosse anche solo per un giorno…

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Pietre d’inciampo

Stolpersteine. Ovvero “pietre d’inciampo”, nel teutonico idioma dello scultore G. Demnig che le ha ideate e posate, oltre che in altre città d’Europa, anche a Roma. I greci avrebbero detto “pietra dello scandalo”, poiché per loro “scandalo”significava appunto “inciampo”; e nella vita c’è da imparare a scandalizzarsi per le cose che meritano, altrimenti lo scandalo scade dall’etica all’etichetta e via ad occuparsi degli inciampi tra le lenzuola di uomini e ominicchi: non che sia tutto ‘sto edificante vedere vecchietti assoldati dallo stato per governarlo, che per non sentirsi soli nelle loro stanze lustre e piene di quadri stipendiano donne nate un quadrato di lustro (moltiplicato x 2) dopo di loro. Per carità, niente di illegale, solo tanta pubblica tristezza…

Ma lo scandalo interiore deve spendersi per quello che accade quando, tutti distratti dal timoniere, dalle sue feluche e fanfaluche, nella stiva milioni di persone siano svuotate di umanità: chi come vittima chi come carnefice. Com’è accaduto, come può sempre accadere.

Le stolpersteine sono pietre nate per far inciampare l’attenzione di chi percorre abitualmente le solite vie, ricordando che lì un tempo vivevano donne e uomini poi deportati e condotti al macello nazista, ricordandoci per che cosa valga davvero la pena di scandalizzarsi: di case di cose e di affetti abbandonati al furore di uomini stivali e cani parlanti un’altra lingua, nel volgere di un’alba; di delazioni e denunce anonime, di sguardi rassicurati, indifferenti, quando non cinici o sadici da dietro le persiane chiuse; di vite un tempo promesse ed ora stipate in un carro bestiame, in una camera di morte, in una fossa, infine nel vento…

Le stolpersteine vogliono sottrarre al vento questi nomi per incastonarli nella terra; trarre dalla fossa le ceneri affinché restino, per sempre, solide come il porfido; restituire ai cumuli di volti sepolti nel buio di carri bestiame e camere a gas la brillantezza della loro unicità.

Le stolpersteine scolpiscono in noi l’idea di quanto sia facile calpestare delle vite così come i cubetti di porfido della strada, senza quasi rendercene conto; quanto fu facile un tempo e quanto lo sia ancora oggi, se non per cattiveria legalizzata almeno per l’indifferenza. Perché troppo occupati a creare e smontare gli scandaletti di un belpaese, perché comodi a guardare da dietro le persiane, perché l’altro in fondo non sono io e poi che diamine, mica si deve sempre trovare un perché… ma lasciare che altri tra mezzo secolo si interroghino sui morti per fame, annegati negli stretti, disidratati nei deserti in fuga da conflitti e povertà, che altri ricordino e spieghino perché, ponendo nuovi segni di un tragico ricordo questo no, non è un modo autentico di fare memoria oggi. Non farebbe bene ai vivi, non lo tollererebbero i morti. Un’ulteriore, pesante pietra dello scandalo.

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A

 A come Africa. A. parte stasera per il Congo, chi appena l’avesse osservata con occhio curioso ed anche un po’ affettuoso già poteva sapere che sarebbe andata a finire così – o meglio che così sarebbe iniziata – perché anche sui banchi di scuola si sogna la vita, magari non è qui che tutto comincia ma è anche qui che le cose si incubano, si mettono alla prova, si forgiano e consolidano. A volte purtroppo crollano anche, che è poi un modo di costruirne altre.

A come aereo e come ali, perché A. vola: verso l’altro che l’aspetta per essere la sua gioia , verso tutti quegli altri che per ora sono anonimi come tante a ma che presto si riveleranno nei loro volti che domanderanno, sorrideranno, urleranno, spalancheranno gli occhi.

A come attesa, perché A. di mestiere fa nascere i bimbi, accompagnando per mano tante madri in quel passaggio di travaglio e meraviglia che è la madre di tutte le attese.

A come alternativo, lo sguardo sul mondo che come A. occorre avere per capire che la diversità dell’altro è almeno tanta quanta la nostra, e che in ciascuna c’è un valore aggiunto ed un bisogno di incontro; e che forse, se aspettiamo un momento prima di giudicare, avremo già imparato un altro modo di essere.

A come allegria, perché occorre il lanternino a chi voglia trovare sul viso di A. la rabbia, la tristezza, la competizione.

A. è passata a trovarci prima di partire, ha rivisto la sua aula (ma non era la A), ha incontrato un po’ di noi popolazione che nella scuola ci resta, un po’ di studenti di passaggio come lei  che l’hanno ascoltata immaginando forse il giorno in cui anch’essi potranno dire di aver trovato la stessa motivazione nel perseguire un progetto, quale che sia.

Allora auguri A., allieva audace abituata ad accedere ad altitudini ardite avanzando ampie aspettative, acconsenti ad abbracciarci aspettandoti!

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passate le feste…

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buon anno a te!

La fine di un anno, l’inizio del nuovo… e nonostante siano molti i calendari religiosi ad ogni latitudine tutto il mondo considera ormai questo passaggio: non per qualche arcano palpito unisono e primordiale che misteriosamente si affaccia nel cuore di ogni uomo, ma per più prosaici meccanismi di globalizzazione economica e culturale. E già per questo motivo l’anno lo si dovrebbe iniziare chiedendo perdono, come una sorta di kippur da fratelli minori…
Ciò che invece ci accomuna tutti come umani è questa propensione a marcare il tempo, che è un modo per dargli un senso: dire che c’è una fine significa immaginare che vi sia anche un fine, un punto cui tutto tende e rispetto al quale confrontare le cose che ci accadono e che decidiamo; ecco che ogni fine è anche un bilancio, cose che lasceremmo, di cui ci vergogniamo forse anche un po’ e che ci piacerebbe che un misterioso signore con la faccia da anno vecchio (una specie di babbo natale nel suo viaggio di ritorno, povero tapino) si portasse via, e cose che vorremmo tenere aggrappate alla nostra vita senza che un misterioso bambinetto con la faccia da anno nuovo (una specie di gesùbambino il cui dono però potrebbe anche essere veleno) ce le possa sottrarre. E così ogni inizio nasconde un’attesa, un auspicio, spesso anche un impegno o per lo meno un buon proposito, un’idea…
Se il tempo questo senso lo possieda davvero è questione delle più frequentate e al contempo irresolubili, sospesi come siamo tra la convinzione che ciò che scegliamo di fare dia un’impronta personale ai nostri giorni, e la percezione che le cose procederebbero comunque senza di noi, a prescindere…
In realtà dire “tempo” significa già immaginare un senso: fuori di esso c’è solo il cambiamento delle cose, dentro c’è l’idea. L’idea di poterlo controllare, questo cambiamento, come fa il cagnolino con il suo spazio alzando la gamba… e controllarlo ci dà l’illusione di non esserne totalmente vittime, perché intuiamo dove porta, questo cambiamento. Ma dire “tempo” è soprattutto incrociare il suo senso con la nostra storia: la possibilità di ricordare, che è ritornare con il cuore là dove qualcosa ha acceso il nostro essere; lo sforzo di dimenticare, che è liberare la mente da pesi inutili; l’emozione suscitata dall’attesa, che è l’essere attratto del nostro sguardo verso qualcosa che sta più avanti; la fatica della decisione, che è il tagliar via ciò che non serve per tendere a ciò che ha attratto il nostro sguardo.
E così dicendo “tempo” abbiamo già considerato il passaggio di una nuvola, il distacco di un sasso dalla montagna, il giorno di una nascita o di una morte, lo sciogliersi di un sorriso, l’incrocio di uno sguardo, una parola detta o ascoltata, la vincita di uno scudetto (lontano, lontano…) come aventi a che fare con quella parte di noi che resiste e resistendo esiste autenticamente. Come aventi a che fare con una pienezza sperata e ricercata. Dunque l’augurio che il 2011 sia un tempo felice

a te che mi insegni il mestiere ma soprattutto molto altro,
a te per cui essere madre è la più autentica icona di Dio
a te che hai per nemico uno specchio e per amici molti che si specchiano in te,
a te che vedrai torneremo in serie A,
a te che sei altrove dopo aver camminato qui, e molto, e piacevolmente,
a te temerario guerriero da saga fantastica che sciogli i tuoi timori in discorsi fluenti e sguardo sorridente,
a te che quando fai vibrare la corda di un basso ti senti in alto,
a te che ti diverti a far paura,
a te che hai paura di divertirti,
a te che hai avuto bisogno di scendere nell’abisso per sapere che le stelle brillano davvero,
a te che cerchi nelle indie la chiave del tuo scrigno,
a te che danzi come vivi,
a te che vivi la scuola come una competizione con la vita,
a te che il cioccolato bianco sogna di confortare,
a te che
“semplicemente sei”…

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come si va in cielo (ovvero il vangelo secondo Gagarin)

Parlando di scienza e fede (a ciò indotto anche dal tintinnar degli strumenti di tortura) Galileo spiegava che un conto è dir come va il cielo, che è il discorso dell’uomo di scienza, un conto come si va in cielo, che è il discorso dell’uomo di fede. Non gli faremo tuttavia un torto nel chiedere ai due astronauti più celebri della storia come si vada in cielo: loro l’han fatto per mestiere, un mestiere più di scienza che di fede per quanto possa reggere la distinzione in ciascuno di noi.

Nel 1969 N. Armstrong calcando la prima umana impronta sulla luna affermava essere il suo “un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”; certo il salto di qui a là fu grande, e tuttavia l’umanità sembra doverne ancora fare di strada, se oggi 854 milioni di persone soffrono cronicamente la fame ed il dato non decresce da decenni. E allora non sarà questo – piantando una bandiera – il modo di andare per il cielo: la luna continua ad incantare il nostro sguardo di pastori erranti, ma non è avendola calpestata che siamo diventati più umani e giusti. Quanti miti antichi condannavano l’ingannevole e tragico tentativo degli uomini di salire in cielo, si diceva per l’invidia o la gelosia degli dei ma forse, più semplicemente, perché così si finisce per scordare la terra.

Nel 1961, vincendo la sfida da guerra fredda della prima (astro)navigazione celeste, J. Gagarin aveva pronunciato l’espressione lapidaria “non vedo alcun Dio quassù”; forse un boato di protesta sconquassò i mondi di sopra e certo qualcuno di sotto, ma le parole del cosmonauta sovietico scolpirono ancora una volta e al di là del suo intento una legge su pietra: non cercate Dio nei superni cieli bensì sulla terra, facendovi argine al male ed alla sofferenza dell’altro, smascherando l’ingiustizia e lottando contro l’egoismo proprio e della proprie comunità famigliari, etniche, politiche, religiose. Perché il Trigramma Divino D-I-O condensa in sé l’idea e la prassi per cui il male non è – non deve essere – la parola ultima, il sigillo sull’esistenza dell’uomo e del cosmo; ed il cielo non ne divenga l’alibi più sottile.

Un’altra storia ed un altro mondo saranno davvero possibili con lo sguardo da figli dell’uomo, che indica in una terra giusta e riconciliata la sola via per andare in cielo.

E forse il cielo stesso.

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Desidera una fotocopia…

“Ho bisogno di uscire a fare fotocopie…”: è una delle più remunerative attività che privati gestiscono nella nostra scuola di stato, e le perplessità di fronte a tale richiesta non si fermano qui; non è per l’importanza della lezione che sta per iniziare, figuriamoci se l’insegnante qui di fronte crede così tanto in se stesso e nelle sue parole… La questione piuttosto è: “bisogno“?? C’è qualcosa di impellente, di urgente, di necessario per le tue funzioni vitali? E che cavolo, vai subito, anzi corri, forse non hai potuto prendere bene gli appunti mentre sonnecchiavi con il disturbo del cellulare che ti vibrava in tasca, o più semplicemente è il solito atto di fiducia nei confronti della tua compagna e del suo modo di appuntarsi le cose (cioè esattamente come coso se le vorrà sentir ripetere).

Ma dimmi, almeno una volta, “desidero fare una fotocopia”! Ecco, penserei all’opera – per lo più incompiuta – del tuo compagno che disegna questa sorta di mandala mostruosi in tutte le mie ore (lui non dorme mai…); o forse alla silhouette avvolgente della fatina misteriosa schizzata dalla matita della (apparentemente) pensierosa compagna dell’ultima fila, che sogna mentre la crea e però spero che non si sogni così, tipo winx in bianco&nero. O ancora la foto dell’amica della tua vicina di sinistra (la vicina, e anche l’amica magari) spuntata fuori dal suo diario ormai sderenato, agognato sguardo mai ricambiato e finalmente carpito per godere almeno di un’amabile finzione. Ecco, desideri, e allora esci correndo, non scappando dall’incubo dell’interrogazione di Damocle ma sulle ali del vento. Perché bisogno è il viaggio di chi scappa, e la vita gli urge, e l’acqua si trangugia per non morire di sete; è la strettoia troppo stretta. Desiderio è la scoperta avventurosa già immaginata prima di salpare, giorni progettati che già li si assapora, vino contemplato contro luce, annusato e poi gustato e ti accorgi che già lo indovinavi così, no, anzi, è ancora meglio; è la distanza dalle stelle che si sogna di colmare. E questo noi siamo, bisogno e desiderio: il bisogno che si trasfigura in desiderio, che spiega il nostro essere insieme evolutivo e sognatore; il bisogno degli altri (di pane, di acqua, di casa, di pace, di parole da scrivere e pensare) che siamo chiamati a desiderare di colmare, affinché ognuno possa de-siderare: guardare le stelle scoprendo che questo è il bisogno che ci fa umani.

E allora fatti ste fotocopie!

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Sii sincero

Se ciò che stai per dirmi mi ferirà, dillo comunque
Se credi che io non valga abbastanza, fammelo capire
Se mi stai tradendo, lascia delle tracce che possa intuire
Se sai che sto per morire, fammi stringere i denti e poi avvertimi

Quanti tra noi esigono niente di meno che questo da coloro a cui vogliono bene? Quanti altri invece vorrebbero non sapere: il giorno, l’ora, il luogo di tutto ciò, in fondo forse per non doversi domandare il perché?
Per gli uni la bugia è sempre e solo inganno, un modo subdolo con cui ci fanno del male; per gli altri è l’invenzione di un mondo un po’ più abitabile. Per i primi la bugia è l’inautentico a cui ci sentiamo condannati in contumacia, senza nemmeno poter tentare una difesa; per i secondi è la prima fila nel teatro della nostra vita che vede altri recitare solo per noi. Gli uni non vogliono ‘quel’ loro bene; gli altri non vogliono l’altrui nè la propria sofferenza.
Esistono allora anche le bugie buone, i non-detti per amore? Forse le troviamo nel trompe l’oeil dell’artista che ci rende piacevole uno sguardo anche se non conosceremo mai l’effetto che su di noi avrebbe fatto l’alternativa reale; forse nel tacito accordo tra attore e pubblico, perché quest’ultimo sa che si recita eppure non saprà mai se l’istrione possa essere davvero così anche giù dal palco, un inganno vero attraverso un altro dichiaratamente finto (e così autenticamente ingannevole). Lo sa forse la coppia affiatata, che nello spazio dei non-detti trova altri spazi di equilibrio di uno verso l’altro, intuendo la soglia oltre-la-quale-non. Potrebbero magari saperlo gli amici e le amiche quelle vere, che sanno guardare con un sorriso un po’ nascosto le strane strade con cui l’altro a volte gira intorno a loro, perché sanno di essere importanti anche quando nuove cose compaiono e bisogna riposizionarsi nella reciproca geografia.
La bugia buona, se ce n’è, lo sarà a queste due condizioni: che l’intenzione verso l’altro si chiami ben volere, ma soprattutto che la bugia sia sempre una parola penultima, provvisoria, giusto-il-tempo-di. Perché le sole buone intenzioni non bastano, non fanno più vera la vita dell’altro. Come una recita, uno schizzo a matita, uon scherzo, solo fin tanto che. Altrimenti la bugia diventa condanna dell’altro a vivere in serie B, in subordine rispetto alla nostra tranquillità; una menzogna che nel dirla dice male di chi la dice e, quando si resta soli nel proprio angolo, lo si sa e fa pure soffrire. E l’unica via di uscita è chiederne perdono. Sinceramente…

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solo zucche vuote?

Pochi anni fa un predicatore di mestiere tuonava contro Halloween come la festa delle zucche vuote; a far capire che quelle piene, invece, hanno ben altro su cui riflettere nella stessa data. Ora non è questione di prendere posizione pro o contro l’ultima arrivata delle feste, né suonerebbe ormai più originale contestarne l’evidente apparato consumistico che muove (o che la muove); non di facile moralismo c’è bisogno nè dell’abbandono nostalgico al tempo che fu. Si domandi piuttosto il predicatore chi si è mangiato la polpa delle zucche, tanto da far suonare vuoto il suono della morte; si chieda come mai la festa che un tempo metteva in comunicazione i vivi con i morti (diversamente viventi, religiously correct?) non comunichi più nulla, che cosa diciamo di quella realtà che risulta ormai incomunicante con le nostre vite grazie a rimozioni varie. Già, le rimozioni: non solo il divertissment di chi invita a non pensarci facendo festa (quante tuonate pure qui…) ma anche la fretta di chi attraversa il rito cristiano del commiato come se fosse una passeggiata fin troppo abitudinaria: che, per molti dei presenti, non è l’ultima e dunque rimane meno importante (delle altre cose da fare…)

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