La leggenda del mago Sabino

In un ciabòt, qui del nostro territorio, viveva una famiglia molto numerosa che non riusciva a dare da mangiare a tutti i figli. Allora padre e madre, quando il più vecchio dei figli raggiunse l’età adatta per poter lavorare decisero di mandarlo in giro per il mondo a cercar fortuna e il ragazzo accondiscende.

L’indomani il ragazzo, messo in saccoccia quel poco che i suoi genitori gli avevano dato partì e si incamminò per un sentierino. Dopo un po’ di camminata vide un nasòo con dentro una nonnina che non riusciva più ad uscire.

Allora Toni, così si chiamava il ragazzo, le avvicinò un bastone per aiutare la poveretta. Una volta fuori la nonnina gli chiese come si chiamasse e cosa ci facesse da quelle parti. Il ragazzo rispose che si chiamava Toni e che andava in giro per fare fortuna. Allora la vecchietta, guardando la borsa che il ragazzo aveva con se, gli chiese cosa avesse lì dentro e Toni le disse che aveva del cibo e le chiese se avesse fame. La vecchia annuì e allora Toni le diede tutto ciò che aveva vedendo che l’anziana ne aveva più bisogno di lui.

Dopo il pasto frugale la nonnina disse al ragazzo che, siccome lui l’aveva aiutata lei avrebbe fatto la stessa cosa. Gli disse che in città il re ha messo un bando e una grossa ricompensa a chi riuscirà a catturare ed uccidere il mago Sabino che da tempo tormentava il regno mangiando uomini e scatenando maledizioni su di esso. Allora gli diede istruzioni, appena giunto in città sarebbe dovuto andare dal re e dirgli che lui era in grado di sconfiggere il mago, dopodichè sarebbe dovuto andare nella pasticceria del paese e comprare più dolci che poteva e il resto delle istruzioni gliele disse all’orecchio. Dopo le spiegazioni Toni disse alla nonnina che lui non avrebbe potuto comprare i dolci visto che soldi lui non ne aveva mai visti in vita sua. Allora la vecchia gli disse di controllare la tasca e il ragazzo, con aria scettica, controllò e incredulo ne tirò fuori alcune monete.

L’indomani Toni andò in città e, dato l’annuncio al re, gli chiese un favore: se avesse potuto farsi fare una cassa di ferro con gli anelli che si stringono e non si allargano più. Il re allora ordinò al miglior fabbro della città di costruire la cassa e così, qualche giorno dopo Toni fu pronto per affrontare il mago.

Il ragazzo entrò di soppiatto nella casa del mago e, avendo saputo dalla nonnina che il mago teneva con sé un corvo parlante, si rivolse al pennuto dicendogli di non fischiare perché aveva con sé parecchi dolcetti apposta per lui. Allora il corvo stette zitto e ascoltò con attenzione le istruzioni di Toni.

Il giorno seguente Toni andò dal mago che stava lavorando l’orto, il quale non appena lo vide era pronto per sbranarlo e gli chiese cosa ci facesse lì e il ragazzo gli disse che era molto povero e siccome non riusciva a fare fortuna aveva deciso di porre fine alle sue sofferenze a patto che il mago lo lasciasse un po’ all’ingrasso visto che era tutto pelle e ossa. Il mago, ignaro del piano che aveva architettato Toni acconsentì e lo lasciò all’ingrasso per alcune settimane.

Nel frattempo il ragazzo era ingrassato ed il mago era pronto per farlo cuocere, ma Toni gli disse che ragazzi come lui, con la pelle dura, andavano uccisi in casse chiuse, al buio, così la pelle si ammorbidiva. Il mago non ci credette da subito e allora Toni gli disse che, se non ci credeva, poteva andare a chiedere al corvo e il mago lo fece. Il corvo, mentendo come gli era stato detto da Toni gli spiegò che era vero e che un altro mago della zona lo aveva fatto. Allora convinto, Mago Sabino trovò una di queste casse in fondo al suo portico, proprio quella che il fabbro aveva lasciato lì su richiesta di Toni. Allora il ragazzo si mise dentro e il mago cominciò a battere per chiudere la cassa, ma c’era sempre un po’ di luce che filtrava e allora Toni gli disse di entrare dentro lui che gli avrebbe fatto vedere e il mago entrò, tutto preso dalla voglia di imparare. Dopo un po’il ragazzo chiuse la cassa e gli chiese se gli era chiaro e il mago annuì e gli disse di farlo uscire, ma Toni non lo fece e legò la cassa al carro d’oro del mago portandolo in città.

Il re allora lo abbracciò contentissimo e fece portare degli enormi cestoni pieni di monete d’oro e gli chiese cos’altro avrebbe voluto visto che aveva salvato il regno. Lui non volle nient’altro, ma la figlia del re, che stava ascoltando da dietro una tenda chiese al padre se avesse potuto sposare Toni e il padre accondiscese e le nozze furono fissate.

Allora entrò al castello una magnifica signora che chiese a Toni se si ricordasse chi fosse e il ragazzo le disse che non l’aveva mai vista in vita sua. Allora lei piegò che era la vecchina che lui aveva aiutato qualche tempo prima e che in realtà era una masca, di quelle brave. Allora Toni e la figlia del re si sposarono e la leggenda vuole che la tomba del mago Sabino (o Merlino) sia sotto un masso squadrato gigantesco al pian del re.

La leggenda del Ponte del Diavolo

Gli abitanti del paese di Dronero avevano deciso di costruire un ponte per poter attraversare senza difficoltà il torrente Maira. Nonostante i loro sforzi, però, nessun ponte era abbastanza robusto da resistere alle piene dell’impetuoso torrente. Ogni volta che un ponte veniva costruito, la pioggia gonfiava le acque del torrente e la corrente trascinava via con sé il fragile lavoro degli uomini.
Il sindaco di Dronero, non sapendo più cosa fare, decise di chiedere aiuto al diavolo: “Diavolo, puoi costruire per noi un ponte che le acque del torrente non si portino via?” “Certo, lo posso fare, ma voglio in cambio la prima anima che attraverserà il ponte!”
Il sindaco accettò il patto e il diavolo costruì un ponte talmente robusto da poter resistere anche ai peggiori temporali, quando le acque del torrente si scagliavano furibonde contro tutto quello che incontravano sul loro cammino.
Quando il ponte fu pronto, il sindaco prese un pezzo di pane e lo lanciò sul ponte. Un cane randagio che gironzolava lì intorno vide il pane e si precipitò a prenderlo, scappando poi velocemente dall’altra parte del torrente. La prima anima aveva attraversato il ponte! Il diavolo, che non sapeva che farsene dell’anima di un cane, scappò via infuriato e da quel giorno il ponte prese il nome di Ponte del Diavolo.

Marta Costa

La leggenda di Vinadio

Viveva, un sacco d’ anni fa, a un tiro di balestra da Moiola, minuscolo paese della Valle Stura, un montanaro. Per campare faceva il boscaiolo e, siccome era un due metri d’uomo forte e lavoratore come pochi, tirava avanti bene. E meglio ancora se la sarebbe passata se non avesse tanto amato il vino. Era il suo debole ed era così forte che lo portava ogni sera all’osteria da cui usciva, due pintoni più tardi, farfugliando un mucchio di cose senza senso. Il mattino seguente si vergognava come un ladro e, rinsavito, giurava e spergiurava che non avrebbe mai più assaggiato un goccio di vino, ma eccolo la sera stessa di nuovo nella bettola in compagnia dei soliti pintoni. Finalmente dopo una sbronza che l’aveva intronato per due giorni decise di piantarla lì con le osterie e, salutati i compagni, prese a salire la valle. Tanto camminò che si lasciò dietro con le taverne anche l’ultimo casolare. Allora si fermò lungo il fiume e, dando per sempre l’addio al vino, costruì la sua casa. Questa fu la prima di un nuovo paese: Vinadio che, secondo la leggenda, trae il suo nome proprio a quell’ addio.

Marta Costa

Leggende “pilun gamba lasa” e Vinadio

IL PILUN GAMBA LASA

C’era una volta, tanto tempo fa, un uomo che stava passeggiando per le vie di Peveragno. Un lupo lo sbranò e lasciò solo una gamba. Quando gli abitanti videro la gamba vicino al pilone lo chiamarono “IL PILUN GAMBA LASA” (= il pilone della gamba lasciata).

 

ADDIO AL  VINO

Viveva, un sacco d’ anni fa, a Moiola un montanaro. Per vivere faceva il boscaiolo e, grazie alla sua stazza, lavorava molto. Il suo problema era l’amore per il vino ed era così forte che lo portava ogni sera ad ubriacarsi. Il mattino seguente si vergognava come un ladro e giurava e spergiurava che non avrebbe mai più assaggiato un goccio di vino, ma eccolo la sera stessa di nuovo a bere. Finalmente dopo una sbronza di due giorni decise di piantarla lì con le osterie e, salutati i compagni, prese a salire la valle. Camminò e si fermò lungo il fiume e, dando per sempre l’addio al vino, costruì la sua casa. Questa fu la prima di un nuovo paese: Vinadio che, secondo la leggenda, trae il suo nome proprio a quell’ addio.

 

 

I Ciciu del Villar e il Pilun Gambalasa

I CICIU DEL VILLAR

Nei secoli si sono sviluppate varie leggende sull’origine di queste formazioni erosive: o frutti di incantesimi oppure frutti di miracoli. Ma la leggenda più diffusa è quella che vuole i “ciciu” formatosi in seguito ad un miracolo di San Costanzo, un legionario romano che, secondo la tradizione, venne martirizzato durante la persecuzione dei cristiani attuata da Diocleziano. Si narra che il Santo, per sfuggire a cento soldati romani che volevano ucciderlo, fosse arrivato fino al Monte Bernardo e ad un tratto si voltò verso i legionari che lo inseguivano e disse loro :”In nome del Dio vero vi maledico! Siate pietre anche voi.” e cosi’ si formarono i Ciciu.

IL PILUN GAMBALASA

C’era una volta un uomo che stava passeggiando per le vie di Peveragno. Un lupo lo sbranò e lasciò una sola gamba sulla strada. Quando gli abitanti videro la gamba vicino al pilone lo chiamarono il pilone della gamba lasciata.

ANNA AUDETTO

Le punte della Bisalta

Secondo una leggenda piuttosto diffusa la cima della Bisalta dovrebbe la sua forma a due punte ad un intervento diabolico. La leggenda narra che un abitante della valle di San Giacomo, ubriaco, stava percorrendo la strada che porta a Madonna dei Boschi, dove la Bisalta, ergendosi in tutta la sua altezza, copriva la luna e quindi gli oscurava la strada. L’uomo, imprecando, disse che avrebbe dato l’anima al diavolo per veder sparire la montagna. Improvvisamente apparve un uomo alto, vestito di verde, dal volto bruno e con una barbetta crespa. Era il diavolo, che gli offrì un contratto cartaceo: avrebbe sgomberato la vista della luna entro la mattina seguente in cambio dell’anima, resa dopo sei anni. Ma l’uomo ubriaco non sapeva firmare, così il diavolo gli diede un ago e gli ordinò di fare un segno con il suo sangue. Una volta firmato il contratto comparvero tanti diavoli e diavoletti che cominciarono a scavare la montagna dalla cima. Il diavolo temeva di non riuscire a rispettare il patto, poiché il lavoro si presentò più difficoltoso del previsto: poco dopo la mezzanotte avevano solo scalfito parte della cima, dividendola in due. Mentre cercava una scappatoia nel contratto, tutti i diavoli e diavoletti scomparvero. Il contratto era stato firmato con una croce. Da allora la cima della Bisalta fu raddoppiata.
Chiara Sivera

Il monte Bego

Il Monte BEGO

IL MONTE BEGO fa parte del massiccio del Mercantour (tra i 2000 e i 3000 m. di altitudine, a sud-ovest del Colle di Tenda), nella zona del Parco delle Meraviglie che si estende tra Italia e Francia.

Il toponimo BEGO deriva dall’indoeuropeo BEG che significa “ Signore Divino”.
Il MONTE fu infatti uno splendido santuario , un luogo dalla sacralità databile tra il 10.000 a.C. e il 1700 a.C. L’ abbondanza delle incisioni rupestri testimonia che si trattava di un'”area privilegiata” in cui, in particolari periodi dell’anno , si concentravano sacerdoti e fedeli per officiare i culti principali:
• quelli dell’agricoltura
• del dio guerriero
• del dio del tuono

In questo luogo mitologico, in quanto considerato un “ Olimpo” , le forze della natura continuano ancora oggi a scatenarsi, mosse da forze ultraterrene: si manifestano inspiegabili ed improvvisi cambiamenti di condizioni climatiche, con l’esplosione di piogge e tormente.
Nel passato lo si definì come un luogo infernale popolato da diavoli e demoni come testimoniano le numerose incisioni. Esse raggiungono complessivamente la notevole cifra di circa 140.000 rappresentazioni, ripartite, pressoché esclusivamente, tra età del rame e età del bronzo.

I temi principali delle incisioni sono :
• animali cornuti con carri od aratri legati al culto dell’agricoltura e dell’allevamento.
• Armi per la guerra
• Figure mitologiche : lo Stregone, il Capo della Tribù, L’uomo dalle braccia a zigzag , il Dio-Toro, la Dea Madre Terra, il Dio della Tempesta
• Fungo Amanita Muscaria, allucinogeno che induce esperienze mentali come illuminazioni e visioni mistico-religiose

Il monte Bego è il simbolo centrale di innumerevoli “storie sacre”, “racconti visionari“, e/o mitologie anche per la sua forma piramidale : lo slancio verso il cielo rappresenta l’elevazione, il collegamento con il divino.

A cura di: Alissa Bonavia

Mito Finlandese

Luonnotar
Nel “Kalevala”, il “poema degli eroi”, si narra della nascita del mondo e della Finlandia. All’inizio c’era un essere che viveva solo nel cielo. Era Luonnotar, la bella figlia dell’aria, che, essendo annoiata, scese dal cielo per posarsi sul mare. Dopo qualche tempo, Luonnotar vide un’aquila che volava ormai da giorni in cerca di un luogo fermo dove riposarsi; alzò il ginocchio per aiutare l’uccello e questo, credendo che fosse un’isola, si posò e fece il suo nido. L’aquila depose sei uova d’oro e una di ferro e iniziò a covarle. Luonnotar, nonostante avvertisse il caldo sul suo ginocchio, cercò di resistere, ma presto cedette e, dopo essersi mossa dal dolore, fece cadere le uova in mare, le quali si ruppero. I gusci delle uova d’oro si distesero e formarono la volta del cielo e la superficie della terra. I tuorli formarono le stelle, il Sole e la Luna. I frammenti dell’uovo di ferro divennero nubi. Passarono giorni e Luonnotar, vedendo che il mondo era troppo piatto, si alzò e iniziò a creare le baie, i promontori, gli abissi marini, le montagne, le valli e le pianure. Dove aveva posato la testa con i capelli si formarono i fiumi. Dove aveva posato i piedi si formarono arcipelaghi.

Il colle del mulo

Il colle del mulo

Tanto, tanto tempo fa, forse al tempo dei nonni dei nostri nonni, il colle che sta fra il piano della Bandìa e il vallone di Marmora, tra le valli Stura e Maira, non aveva un nome suo, come l’hanno quasi tutte le cose che ci sono al mondo.

Forse questo fatto non aveva molta importanza per i pastori e le pecore che lo attraversavano ai primi giorni di giugno, per fermarsi l’estate sui pascoli d’alta montagna. Nessuno, né pastori né bestie, aveva bisogno di un nome per superare quel colle.

E così rimase senza nome fino per un tempo lunghissimo, e ormai però non si sa quando finì questo periodo.

Un’estate salì ai pascoli di montagna, come faceva ogni anno, una famiglia di pastori: c’era il padre, c’era la madre, e c’era anche una bambina; c’erano le pecore, due cani, e un mulo che tirava il carro con le provviste e tutto quello che serviva per fermarsi lassù fino all’autunno.

Quell’anno, verso la metà di ottobre, il freddo arrivò all’improvviso – come succede spesso in montagna anche quando sembra che l’estate non debba ancora finire. Ed era così pungente che lo sentivano anche gli animali i quali, come tutti sanno, capiscono meglio dell’uomo le parole del vento e i colori delle nuvole.

Fu così che il pastore, alzati gli occhi prima al cielo e alle rocce grigie dei monti e poi agli animali un poco stupiti e silenziosi, decise che era giunto il momento di tornare a valle con tutta la roba e il gregge. Furono fatti i preparativi in tutta fretta e, davanti il mulo col carro, pastori pecore e cani si incamminarono sui ripidi sentieri del colle per ridiscendere al piano.

Non erano passate due ore da quando si erano mossi che il cielo si gonfiò come un cuscino di piume e cominciarono a volare i primi fiocchi di neve. Il padre, la madre e persino la bambina cercarono di affrettare il cammino, spingendo il carro che il mulo tirava a fatica, ma la lunga gobba del colle era ancora lontana.

Decisero allora di attendere il nuovo giorno per proseguire e si accamparono alla meglio sotto il carro, stretti stretti, per ripararsi dal freddo e dalla neve. Durante la notte continuò a nevicare così fitto che al primo mattino il gregge, il mulo e il carro erano sommersi da un metro e più di bianchissima neve.

A quel punto il pastore sciolse il mulo dal carro, sembrandogli di poter in quel modo dare un poco di aiuto anche alla bestia, rimasta per tutta la notte senza riparo. Ma, appena libero, l’animale voltò il muso prima a guardare un punto davanti a sé, poi sul padrone, quasi volesse rassicurarlo. Con grande stupore dell’uomo, si mosse a fatica nella neve, sprofondando ad ogni passo, ma continuò ad andare senza esitazione, sordo ad ogni richiamo verso il punto dove poco prima aveva guardato. Stava andando verso casa.

Quando giunse al primo villaggio oltre il colle, i montanari del luogo nel vederlo capirono che era venuto per chiedere soccorso e, girandogli attorno lo interrogavano guardandolo negli occhi pieni d’acqua.

Il mulo, come aveva fatto col suo padrone alle prime luci dell’alba, così fece con quegli uomini, già pronti a partire verso la montagna. Accennò a muoversi, si fermò, voltandosi come per assicurarsi d’esser seguito, poi continuò ad andare verso il colle da cui era venuto. Così avvenne che la nostra famiglia di pastori, il loro gregge e i due cani furono tratti in salvo.

E così pure da quel giorno ormai molto lontano il colle della nostra storia fu chiamato ‘Il Colle del Mulo’ ed ebbe – e gli rimarrà per sempre – un nome, come è giusto che l’abbiano tutti i luoghi del mondo.

Osea Fracchia