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Il culto 
di  Marte

Isidoro da Siviglia

Marte padre 
di Roma

  Tito Livio

Floro

Eutropio Donne a Roma

Dio della vita e della morte

Il dio infedele

Un popolo di conquistatori

   Deus auctor culpae

 Pater certus est...

  Vox populi...

Bambini a Roma

 

 

Tito Livio

Deus auctor culpae...

      

 

La vita 
(Padova 59 a. C. - 17 d. C.) 

Tito Livio, appartenente ad una  nobile famiglia della Gallia Cisalpina, come molti altri letterati di epoca tardorepubblicana,  ha vissuto un periodo di acuta crisi politica ed istituzionale, quello delle guerre civili, del secondo triumvirato e dell'affermazione di Augusto, del quale fu amico personale, pur tenendosi sempre lontano dalla politica. Fu precettore di Claudio e amò gli studi filosofici, anche se la sua vera passione era la storiografia  (27-25 a.C.).  

"Ab urbe condita"

L'opera fondamentale di Tito Livio fu una monumentale storia di Roma dalle origini ai suoi giorni in ben 142 libri, chiamati "annales",  dei quali ci sono pervenuti quelli che vanno dalle origini al trionfo di Paolo Emilio sulla Macedonia nel 167 a. C., in tutto 35, quindi una ridotta parte dell'opera. Degli altri ci restano brevi estratti,  le le "epitomae",  e i riassunti (perìochae), tra i quali quello di Eutropio e  commenti, come quelli di Floro.

Caratteristiche dell'opera

Il racconto è sostanzialmente cronologico, ma sono numerosi gli episodi drammatici e i discorsi, dei quali non è facile dire se siano pura invenzione o se si ispirino in qualche modo a testimonianze scritte e orali. Quelli più antichi probabilmente sono stati elaborati da Livio, mentre è probabile che le orazioni più recenti, pronunciate nel II o anche del III secolo a.C., facessero riferimento a testi scritti. 
Anche il quadro storico delle epoche più  lontane ha le caratteristiche di un racconto epico più  che di una narrazione  storica.

La concezione liviana della storia

Amico di Augusto, intendeva con la sua opera glorificarne l'opera, celebrare il destino di Roma esaltare la "virtus" romana e l’ideale della "pax augusta", senza però nascondere nostalgie repubblicane. La sua è un'opera di natura epica  e morale, come se l'autore avesse voluto creare in prosa ciò che Virgilio aveva realizzato in poesia.
Livio non era però un semplice propagandista di Augusto, del quale non approvava il culto della personalità e l'assolutismo, infatti egli ne accettò il programma politico solo quando non potè più farne a meno, cioè quando  il governo di uno solo gli parve l'unico modo per difendere la pace; lo stesso imperatore gli rimproverava di essere ancora idealmente un "partigiano di Pompeo".
Già nel momento in cui la potenza romana aveva raggiunto quasi il massimo, Tito Livio ha percepito l'inizio della decadenza proprio nella perdita della libertà che il passaggio da repubblica a monarchia implicava, ma il suo patriottismo non ne è rimasto compromesso.

Le fonti

Livio utilizza non tanto documenti, ma fonti letterarie che, data l'estensione dell'opera, dovettero essere molto numerose: le fonti storiche latine, quali le "Origines" di Catone e le opere degli annalisti; le fonti greche quali le opere di Polibio e di Posidonio d'Apamea; le fonti letterarie, quali le opere poetiche di Nevio, di Ennio e di altri poeti, e gli scritti eruditi di Varrone Reatino;  le fonti orali, ossia le tradizioni sia popolari che colte, a cui è da aggiungere anche qualche indagine antiquaria personale.

Lo stile 

Livio adotta una prosa ampia, fluida come auspicato da Cicerone e si contrappone alla tendenza arcaicizzante e allo stile frammentario di Sallustio;  descrive fatti e personaggi con una coloritura drammatica e tragica, rivelando così intima partecipazione alle vicende che sta narrando. 
Riteneva infatti che la storia fosse "opus oratorium maxime", cioè un'opera di natura prevalentemente oratoria però, se è vero che ama abbellire il testo reinterpretando le parole e i pensieri dei personaggi descritti, non cede come Floro alla tentazione di introdurvi acriticamente l'elemento soprannaturale. 
 

Testo

Vi compressa Vestalis cum geminum partum edidisset, seu ita rata seu quia deus auctor culpae honestior erat,  Martem incertae stirpis patrem nuncupat. Sed nec di nec homines aut ipsam aut stirpem a crudelitate regia vindicant: sacerdos vincta in custodiam datur, pueros in profluentem aquam mitti iubet (Libro primo).

Traduzione

Una vestale costretta con la forza, avendo dato alla luce due gemelli, o perché ne era convinta, o perché era più dignitoso che fosse un dio l'autore della colpa, affermò che era Marte il padre dell'incerta prole. Ma nè gli dei, nè gli uomini  poterono salvare lei o i bambini dalla crudeltà del re il quale ordinò di chiudere in carcere la sacerdotessa incatenata e di gettare i bambini nel fiume. 

Alla lettera

Costretta con la forza una Vestale, avendo dato alla luce due gemelli, o perchè così convinta, o perchè era più dignitoso un dio autore della colpa, dichiara Marte padre dell'incerta prole. Ma nè gli uomini nè gli dei salvano lei o i bambini dalla crudeltà regia: la sacerdotessa incatenata è incarcerata e ordina i bambini essere gettati nell'acqua che scorre.

Commento

Tito Livio sembra scettico sulle origini divine di Romolo e Remo, anche se non le nega e se, comunque, dichiara che l'accaduto è stato volontà del Fato. Secondo lui i fatti sono questi:una donna di nome Silvia, sacerdotessa legata al voto di castità, ha giustificato la sua gravidanza illegittima, probabilmente frutto di violenza, attribuendola al dio Marte o per convinzione o per salvarsi dalla grave punizione riservata alle vestali che violavano il loro voto, anche se l'accaduto non era colpa loro.
La sopravvivenza dei due bambini viene attribuita al fatto che la cesta sarebbe stata abbandonata non nella corrente del fiume, ma in una zona paludosa che esso avrebbe creato uscendo dagli argini. L'intervento degli dei è ridotto al minimo; l'autore lo liquida con una sola parola, l'avverbio "divinitus"  cioè "per volontà degli dei", col quale si allude ad un generico intervento della "provvidenza" divina che avrebbe provocato l'opportuna esondazione.

La posizione dello storico è dunque sostanzialmente scettica, egli tuttavia  non arriva a negare la leggenda, cosa che sarebbe stata considerata sacrilega e contraria alla politica di Augusto volta a difendere il valore delle tradizioni romane, non solo  mitologico-religiose ma anche morali.
Qualcuno ha letto in questo scetticismo il segno che, presso i ceti sociali superiori, la religione ufficiale con i suoi innumerevoli dei aveva perso credibilità e quindi il programma imperiale di "ritorno al passato", come è accaduto in molte epoche storico, era in realtà del tutto illusorio. La religione tradizionale sarebbe stata sostituita dalla fede in un'unica  volontà superiore, forse proprio il Fato, il che avrebbe  aperto la strada alla diffusione del cristianesimo.

Dal punto di vista sociale, il brano offre alcune indicazioni sulla condizione femminile all'epoca della fondazione di Roma, certamente molto peggiore di quella di  epoca tardorepubblicana.
L'argomento merita una più ampia trattazione in altre sede, dato che non rientra nell'ambito del rapporto tra uomo e cielo; qui ci limitiamo a notare come le donne fossero esposte ad atti di brutalità dei quali, come è accaduto fino a tempi recentissimi, erano paradossalmente ritenute colpevoli. Dato che il valore di una donna dipendeva dalla sua verginità prima del matrimonio e dalla sua fedeltà dopo, la vittima della violenza non aveva alcun interesse a denunciare l'aggressore perché la stessa ammissione del fatto l'avrebbe degradata a persona priva di valore, rifiutata da tutti. La vestale che venisse meno al voto di castità veniva in tempi antichi rinchiusa in una cella buia per sempre, talvolta addirittura lasciata morire di inedia; è anche vero che ai tempi di Livio questa barbarie non era più in uso, ma se ne conservava il ricordo perchè la legge ufficialmente non era stata abolita. Non stupisce dunque il fatto che Rea Silvia (reus in latino voleva dire "colpevole") abbia chiamato in causa Marte per giustificare quello che forse è stato addirittura un fatto accaduto contro la sua volontà.
Il più celebre caso di violenza denunciata da una donna è quello di Lucrezia, virtuosa matrona oltraggiata dal figlio del re Tarquinio il Superbo, la quale (lei!) si uccise per la vergogna, a testimonianza del fatto, più volte rilevato nel corso della storia (si pensi a Primo Levi, "I sommersi e i salvati") che a vergognarsi della colpa è chi la subisce e non chi la commette.