La capra di Umberto Saba

Ho parlato a una capra
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perchè il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

 

La parte iniziale di questa poesia può apparire priva di alcuna logica, perchè il soggetto dell’opera parla con una capra. La spiegazione ci viene data dalla strofa successiva, dove il poeta ci spiega l’assonanza che vuole comunicare tra l’uomo e l’animale.

Nella capra, infatti, Saba riconosce un aspetto distintivo di ogni essere umano: il dolore.
Nell’animale, egli scorge le sofferenze e gli atteggiamenti di ogni uomo quando soffre, perchè la sofferenza è il destino di ogni uomo. Tale legame fondato sul dolore è marcato dagli aggettivi e collegamenti usati (fraterno, bagnata, gemere,ecc…).

Il belato della capra è quindi assimilabile al pianto umano e dunque il poeta, parlando alla capra, si avvicina nell’animo alle sofferenze di tutte le creature viventi. Nell’ultima strofa, egli vede un volto semita nell’animale e la umanizza anche nelle espressioni, giustificando così l’apertura della poesia come un modo per partecipare alla sofferenza comune di tutti gli esseri viventi.

 

Nel belato di una capra il lamento dell’uomo.

Umberto Saba , poeta straordinario dalla voce semplice e chiara, riflette su un tema caratterizzante della condizione terrena: la sofferenza. Lo fa partendo dal basso, nell’umiltà di stile e contenuti.

Non il leone infatti, ma una capra “solitaria” assurge a simbolo del dolore universale.

Pertanto scegliendo un misero elemento del mondo animale, il poeta crea un sinolo tra tutte le creature che popolano la Terra. Il belato diventa pianto se il dolore è umano. Mutano i nomi, non la sostanza.

Tratta dalla sezione “Casa e campagna”  de “Il canzoniere”, “La capra” racconta il dialogo intimo, sincero, del nostro autore con l’animale. Inizia per scherzo, nella debole convinzione che la capra non è in grado di soffrire. Poi il punto di svolta e tutto appare drammaticamente nitido: attraverso quel belato la capra ha espresso il suo dolore, una sofferenza reale che Saba riconosce subito vicina a quella provata da se stesso. Dunque anche chi non dovrebbe soffrire, in realtà è lacerato dal dolore. L’afflizione non è prerogativa della ragione umana, ma è insita nel destino di tutte le cose.

La conclusione della poesia rivela poi l’abilità del poeta. Attraverso un aggettivo, semita, Saba svela il trucco. Può una capra essere ebrea? Che cosa il poeta vuole comunicarci? Chi si cela effettivamente dietro quel volto ovino? Cadono i veli della finzione poetica: quella capra è il poeta stesso, la cui nazionalità è per l’appunto ebrea.

Ecco che perciò quel dialogo si risolve in un soliloquio, un monologo del poeta con se stesso.

Da un piano astratto e generale si passa alla condizione particolare dell’uomo che scrive. Si scorge la coscienza dell’autore, la cui espressione è il belato semplice di una capra. . Ecco che realtà e finzione si mescolano e la poesia ci consegna un pezzo di autobiografismo.

 

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