L’amico è

 

E’ l’amico e’
una persona schietta come te
che non fa prediche
e non ti giudica
fra lui e te divisa
due la stessa anima
pero’ lui sa
l’amico sa
il gusto amaro della verita’ . .
ma sa nasconderla
e per difenderti
un vero amico anche bugiardo e’
L’amico e’
qualcosa che piu’ ce n’e’ meglio e’
e’ un silenzio
che puo’ diventare musica
da cantare in coro io con te
E’ un coro e’
un grido che piu’ si e’ meglio e’
e’ un silenzio
che puo’ diventare musica
e il mio amore nel tuo amore e’
E’ l’amico e’
il piu’ deciso della compagnia
e ti convincera’ a non arrenderti
anche le volte
che rincorri l’impossibile
perche’ lui ha
l’amico ha
il saper vivere che manca a te . .
ti spinge a correre
ti lascia vincere
perche’ un amico punto e basta e’
L’amico e’
qualcosa che piu’ ce n’e’ meglio e’
e’ un silenzio
che puo’ diventare musica
da cantare in coro io con te
E’ un coro e’
un grido che piu’ si e’ meglio e’
Oh Oh Oh Oh Oh Oh
Oh Oh Oh Oh Oh Oh Oh
e il mio amore nel tuo amore e’
E’ l’amico e’
uno che ha molta gelosia di te
per ogni tua pazzia
ne fa una malattia
tanto che a volte ti vien voglia
di mandarlo via
pero’ lui no
l’amico no
per niente al mondo io lo perdero’ . .
litigheremo si
e lo sa lui perche’
eppure il mio migliore amico e’
L’amico e’
qualcosa che piu’ ce n’e’ meglio e’
e’ un silenzio
che puo’ diventare musica
da cantare in coro io con te
E’ un coro e’
un grido che piu’ si e’ meglio e’
Oh Oh Oh Oh Oh Oh
Oh Oh Oh Oh Oh Oh Oh
e il mio amore nel tuo amore e’
e il mio amore nel tuo amore e’

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Filmato Terra da satellite

geografia

link: www.youtube.com/watch?v=8Atj_-W6y_s

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La mia sera di Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli, “La mia sera”

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
E’, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io … che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don … Don … E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra …
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era …
sentivo mia madre … poi nulla …
sul far della sera.

 

La poesia , tratta dai canti di Castelvecchio,è composta da 5 strofe, le quali terminano tutte con la parola “sera”, a loro volta le 5 strofe sono costituite da 8 versi di cui 7 novenari e l’ultime sono senari.

 

Commento

Pascoli immagina una sera di un’estate dopo un temporale e parla delle silenziose stelle e i campi, nei quali si sentono le rane, mentre arriva la pace della sera. Le stelle si fanno vedere come fiori fra le nuvole e nel campo si sente il singhiozzo d’un fiume(è’ quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro) e, dopo la pioggia, si presenta la sera piena di umidità. La furia della tempesta é placata , i fulmini lasciano il passo alle nuvole rosse e dorate per i riflessi del sole cadente. Finalmente le rondini intrecciano voli nell’aria per soddisfare la voglia di cibo che le assale, prolunga la loro ricerca di cibo che neanche i piccoli non avranno,e neanche l’autore ha avuto la sua felicità, mentre le rondini volano nella limpida sera. Le  campane si fanno sentire, è un suono che assomiglia ad una ninna-nanna, e fanno ricordare all’autore la madre, che gliela cantava prima di addormentarsi, sul finir della sera.

Pascoli vuole fare un paragone tra il temporale e la pace della sera, cioè paragona il temporale alla vita travagliata (perdita dei cari genitori) e la sera ad un momento di tranquillità della sua vita.

Il Poeta così raggiunge la serenità, risentendo il canto della madre mente culla i figlioletti. Incontrare la mamma, i propri fratellini, significa per il Poeta, appagare una esigenza fortemente sentita.

 

Figure

La poesia è composta da 5 strofe di sette novenari e un senario, che termina sempre con la rima tematica “sera”, che rappresenta la parola-chiave della lirica. Le rime sono alternate. Schema: ABABCDCd. I versi 19 e 34 sono ipermetri.

Nella poesia l’autore tende ad Umanizzare la natura “singhiozza monotono un rivo”, trasmettendo sensazioni al lettore.

Importante è l’uso di Onomatopee (dolci) come “breve gre gre di ranelle”oppure “singhiozza monotono un rivo”o “Don…Don. E mi dicono dormi! Mi cantano Dormi! Sussurrano Dormi! Bisbigliano Dormi” e infine “voci di tenebra azzurra” ch’è un’onomatopea (voci) unita con sinestesia (l’insieme di due sensi; vista e udito) ossimoro(tenebra azzurra) e metafora(indicano le voci della morte). Presenti allitterazioni (es. vv.13-16).

Altre figure retoriche presenti nella poesia sono: metafore (“… tacite stelle…”), la sineddoche (“…i nidi…”), ossimori (“..fulmini fragili…”) e la metonimia (“..stanco dolore…”).

CONFRONTI:

La poesia del Pascoli svolge lo stesso motivo della Quiete dopo la tempesta del Leopardi, ma, mentre questa termina con la meditazione del poeta sulla natura del piacere che è “figlio d’affanno”, si prova cioè solo quando è cessato il dolore . La mia sera del Pascoli, invece, termina con una notazione autobiografica, con la rievocazione, cioè, dell’infanzia e della madre, che cullava dolcemente il poeta: è una conclusione, quindi, tutta individuale e personale.

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Arano di Pascoli

ARANO

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.

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SABA : Mio padre è stato per me “l’assassino”

Mio padre è stato per me “l’assassino”;

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.

Allora ho visto ch’egli era un bambino,

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

 

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,

un sorriso, in miseria, dolce e astuto.

Andò sempre pel mondo pellegrino;

più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

 

Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

 

“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:

ed io più tardi in me stesso lo intesi:

Eran due razze in antica tenzone.

 

METRO: sonetto – (ABAB ABAB CDE CDE)
Alcune essenziali notizie biografiche risultano utilissime per comprendere appieno questa lirica, che possiede comunque una chiarezza essenziale.
Bisogna dunque sapere che la madre del poeta fu abbandonata dal marito, Ugo Edoardo Poli, prima che il figlio nascesse; e la donna descrisse sempre al poeta il proprio padre in termini durissimi, definendolo spesso “assassino”, dato che non solo aveva distrutto la famiglia ma anche le speranze della sua giovinezza. Saba era dunque cresciuto portandosi dietro quell’immagine negativa del genitore, fino a quando, all’età di vent’anni, lo conobbe e lo scoprì straordinariamente simile a se stesso, non soltanto nei tratti fisici ma anche nella volubilità dell’animo, da cui aveva ereditato il “dono” della poesia.
La struttura della poesia, semplice come gran parte della produzione di Saba, segue un procedimento simmetrico: alla figura paterna sono dedicate le due quartine, mentre nelle terzine è l’immagine materna a dominare. Ne emerge infine una contrapposizione fra due mentalità assai differenti, ma il recupero dell’immagine paterna non scalfisce la figura della madre: il poeta mostra infatti un senso di compassionevole amorevolezza verso questa donna oppressa dai “pesi” della vita ed incapace, per carattere e cultura, di comprendere la natura inquieta del compagno. “Anche l’ammonizione a non assomigliare al padre, pur nella sua severità, è dettata dall’amore, tanto che Saba, comprendendone la sostanza, conclude il sonetto senza formulare accuse: è stata la diversità dei temperamenti a determinare l’inevitabile distacco.

 

Il tema

Questo, è uno dei rari componimenti in cui il poeta Saba parla del padre. Qui egli “racconta” ai lettori (ma il tono è quello della confessione lirica) del padre, del suo difficile rapporto con la moglie, dell’odio di questa. Poi ce ne rivela il carattere e sottolinea le straordinarie affinità, non solamente fisiche, che lo legavano al padre. Quindi sottolinea la diversità di carattere fra i due genitori e l’impossibilità della loro convivenza, lo scontro di «due razze» che egli stesso avrebbe sentito, in seguito, in lotta dentro di sé.

Intenzione comunicativa

Saba descrive i sentimenti provati da lui stesso e da sua madre nei confronti del padre. Egli racconta di come abbia sempre avuto una pessima opinione del padre, l’«assassino», come lo chiamava sua madre, ma poi, dopo i vent’anni, scoprì che buona parte del carattere paterno era passata a lui.

Struttura del testo

Sonetto con rima incatenata: ABAB ABAB CDE CDE; la rigida struttura metrica provoca alcune pesantezze stilistiche come le aspre inversioni («e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto»; «mia madre tutti sentiva della vita i pesi”;) e abbondanza di parole tronche (andò, più, sfuggì,…;).

Analisi del testo

Nel sonetto viene sottolineato il contrasto tra leggerezza paterna e pesantezza materna, attuando un rovesciamento del ruolo maschile con quello femminile: infatti per l’autore la madre ricopriva il ruolo dell’autorità inflessibile e della punizione (per solito attributo del padre) e il padre il ruolo della trasgressione, della fuga e del piacere. Mentre la madre sentiva tutti i pesi della vita, il padre è definito come un bambino, «dolce e astuto, gaio e leggero»; curioso e capace di stupirsi: tutto quanto si avvicina al «dono» della poesia proviene all’autore dal padre stesso. A causa del suo comportamento trasgressivo, dell’abbandono della famiglia, dei molti viaggi e delle tante donne avute, la moglie si riferiva al marito con l’appellativo di «assassino» e incitava l’autore a non diventare come il padre (in tal modo veniva delineato un modello pedagogico negativo). Infine «eran due razze in antica tenzone» spiega la conflittualità nel rapporto tra madre e padre, ulteriormente complicato dalla diversa appartenenza religiosa: la madre ebraica e il padre cristiano. E quella conflittualità il poeta la rivive in prima persona, tra le due anime che convivono dentro di sé.
Nel primo enunciato, Saba descrive subito l’odio che provò per il padre, usando soprattutto l’aggettivo “assassino”. Inoltre spiega che il dono di scrivere poesie lo ha avuto dal padre stesso.
Nel secondo enunciato, cioè nella seconda strofa, l’autore racconta in brevi parole come era il padre e cosa fece: aveva gli occhi di colore azzurrino, come i suoi, un “sorriso dolce e astuto” e andò vagabondando per il mondo incontrando più di una donna che lo ha amato e mantenuto.
Nell’ultimo enunciato, cioè nella seconda terzina, il poeta riporta il continuo ammonimento della madre di non diventare mai come il padre; ma, annota l’autore, la cosa non andò così (vedi I enunciato). Negli ultimi due versi dice che più tardi sentì dentro di sé che erano due razze in un contrasto da sempre esistito: la madre era ebrea e il padre veneziano (più pessimista l’ebreo, più ottimista il veneziano).

Commento

La poesia «Mio padre è stato per me l’assassino» fa parte dei quindici sonetti autobiografici contenuti nell’opera di Saba intitolata «Autobiografia», scritta alla fine del 1922: Saba vi racconta la propria vita fino al momento in cui intraprese la professione di libraio antiquario. In questa poesia, il cui significato è sintetizzato nel verso finale («Eran due razze in antica tenzone»), Saba ricorda il radicale contrasto, di cultura e di temperamento, che divise i genitori ancora prima della sua nascita: avevano due caratteri che erano legati alla diversa razza di appartenenza. Per lui la madre ricopriva il ruolo dell’autorità inflessibile e della punizione, e il padre ricopriva invece il ruolo della trasgressione, della fuga, dell’affermazione del principio del piacere.

Le principali figure presenti sono: Metonimia al v. 5 (“sguardo azzurrino” per occhi azzurri: l’astratto per il concreto); Antitesi al v. 6 (“sorriso in miseria” e “dolce e astuto”); Anastrofe ai vv. 7, 10 e 11; Enjambement al v. 9-10; Allitterazione al v. 12 (in N e Z).

 

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Mia figlia (Da “Il piccolo Berto” di UMBERTO SABA )

Mia figlia (Da “Il piccolo Berto” di UMBERTO SABA )
Mia figlia mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.

Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!

Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

 

Nella prima delle tre poesie in un momento di abbandono reso possibile dall’abbraccio e dalle carezze protettive della figlia, Saba si addormenta in uno stato d’animo regressivo, quasi come se tornasse bambino. Questo abbandono si esprime attraverso immagini di dolce passività  e di piccolezza (il pezzo di legno sballottato dalle onde), nell’abbraccio vasto del mare. Il sogno, preparato dall’abbraccio protettivo della figlia, riguarda proprio la balia al cui “primo e amoroso seno” egli approda come dopo aver navigato.

La seconda poesia, che io non riporto, si riferisce al bisogno che il poeta avverte di recarsi a trovare la balia dopo che il sogno l’ha ricondotta alla sua memoria.

Nella terza, infine, l’indagine della memoria conduce al momento decisivo della separazione: il “bimbo” è Saba bambino, la “donna che va via” è la balia. Da notare è l’efficacia drammatica con la quale, attraverso pochissime parole, è rappresentata la scena: sulle scale, mentre la balia (fino ad allora, per Saba, una madre a tutti gli effetti) è costretta ad abbandonare il piccolo Umberto. Adesso, dopo quarant’anni, quel bimbo è cresciuto, ormai è quasi un vecchio, ma va a parlare con la sua nutrice in cerca di pace poiché proprio questa separazione ha causato la sua diffidenza nei confronti del mondo. Il raggiungimento di quella pace che Saba va a cercare dalla balia si ha negli ultimi versi, espressa da una serie di gesti: regolare l’orologio, accendere il lume. La poesia si conclude con un altro distacco dalla balia, per tornare dalla moglie; ma, questa volta, una nuova consapevolezza, una maggiore capacità di scelta conferiscono alla separazione un significato assai diverso.

In questi testi Saba riproduce i meccanismi specifici dell’inconscio. In particolare, nel primo testo si passa, secondo i meccanismi della libera associazione e del sogno (e un sogno è appunto raccontato), attraverso varie immagini apparenterete slegate ma coerenti per ragioni profonde.

I gesti che Saba compie e di cui parla la terza poesia hanno tutti un profondo significato simbolico: significativo è l’atto di regolare l’orologio, in quanto questo era compito del “balio”(il marito della donna), che consente al poeta di prenderne idealmente il posto, così da sentirsi l’unico uomo della casa, secondo il desiderio infantile di possesso esclusivo della figura materna; potendosi, inoltre, identificare con una figura paterna positiva, come gli era stato invece precluso dalla mancanza del padre e dalle recriminazioni antimaschili della madre. Lo stesso può dirsi per l’accensione del lume. La frase con la quale si conclude la poesia (e la serie delle Tre poesie alla mia balia) ha poi un valore ancora più rilevante: la separazione violenta dalla balia, imposta dalla madre, è vissuta ora in modo equilibrato e consapevole. L’altra donna è ora, anziché la madre, la moglie, ma questa somiglia piuttosto alla balia che alla madre, dal momento che è la balia stessa a suggerire al poeta di andare da lei

 

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La capra di Umberto Saba

Ho parlato a una capra
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perchè il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

 

La parte iniziale di questa poesia può apparire priva di alcuna logica, perchè il soggetto dell’opera parla con una capra. La spiegazione ci viene data dalla strofa successiva, dove il poeta ci spiega l’assonanza che vuole comunicare tra l’uomo e l’animale.

Nella capra, infatti, Saba riconosce un aspetto distintivo di ogni essere umano: il dolore.
Nell’animale, egli scorge le sofferenze e gli atteggiamenti di ogni uomo quando soffre, perchè la sofferenza è il destino di ogni uomo. Tale legame fondato sul dolore è marcato dagli aggettivi e collegamenti usati (fraterno, bagnata, gemere,ecc…).

Il belato della capra è quindi assimilabile al pianto umano e dunque il poeta, parlando alla capra, si avvicina nell’animo alle sofferenze di tutte le creature viventi. Nell’ultima strofa, egli vede un volto semita nell’animale e la umanizza anche nelle espressioni, giustificando così l’apertura della poesia come un modo per partecipare alla sofferenza comune di tutti gli esseri viventi.

 

Nel belato di una capra il lamento dell’uomo.

Umberto Saba , poeta straordinario dalla voce semplice e chiara, riflette su un tema caratterizzante della condizione terrena: la sofferenza. Lo fa partendo dal basso, nell’umiltà di stile e contenuti.

Non il leone infatti, ma una capra “solitaria” assurge a simbolo del dolore universale.

Pertanto scegliendo un misero elemento del mondo animale, il poeta crea un sinolo tra tutte le creature che popolano la Terra. Il belato diventa pianto se il dolore è umano. Mutano i nomi, non la sostanza.

Tratta dalla sezione “Casa e campagna”  de “Il canzoniere”, “La capra” racconta il dialogo intimo, sincero, del nostro autore con l’animale. Inizia per scherzo, nella debole convinzione che la capra non è in grado di soffrire. Poi il punto di svolta e tutto appare drammaticamente nitido: attraverso quel belato la capra ha espresso il suo dolore, una sofferenza reale che Saba riconosce subito vicina a quella provata da se stesso. Dunque anche chi non dovrebbe soffrire, in realtà è lacerato dal dolore. L’afflizione non è prerogativa della ragione umana, ma è insita nel destino di tutte le cose.

La conclusione della poesia rivela poi l’abilità del poeta. Attraverso un aggettivo, semita, Saba svela il trucco. Può una capra essere ebrea? Che cosa il poeta vuole comunicarci? Chi si cela effettivamente dietro quel volto ovino? Cadono i veli della finzione poetica: quella capra è il poeta stesso, la cui nazionalità è per l’appunto ebrea.

Ecco che perciò quel dialogo si risolve in un soliloquio, un monologo del poeta con se stesso.

Da un piano astratto e generale si passa alla condizione particolare dell’uomo che scrive. Si scorge la coscienza dell’autore, la cui espressione è il belato semplice di una capra. . Ecco che realtà e finzione si mescolano e la poesia ci consegna un pezzo di autobiografismo.

 

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“TRIESTE” di Umberto SABA

“TRIESTE” di Umberto SABA

Dalla raccolta “Trieste e una donna” (1910-12)

Metro: strofe irregolari de endecasillabi, settenari e quinari. Alcune rime baciate.

“Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.”

 

Trieste è tra i temi in assoluto più cari a Saba, un tema che si estende, pur attraverso modi e prospettive ogni volta differenti, da un capo all’altro del Canzoniere. Il poeta ama Trieste quasi al di là del fatto che sia la sua città: è il luogo fresco che brulica di vita intensa, il luogo aperto sul porto, sul mare che in continuazione ne rinnova il sangue in una sorta di perpetua giovinezza.

Saba intrattiene con la sua città un rapporto tutto speciale: l’ama in se stessa, nelle sue vie, nei suoi colori, nella brulicante umanità dei suoi vicoli oscuri e del suo porto (Città vecchia): qui il poeta ritrova la pienezza di quella calda vita di cui fece prima esperienza nella solidarietà forzosa della caserma.  Trieste è per Saba un luogo privilegiato anche per il suo carattere contraddittorio: è una città portuale, aperta, disinibita e sempre giovane di vita nuova e fresca, e al tempo stesso è una città riservata e diffidente, graziosa di una grazia scontrosa e acerba (Trieste). In questa contraddizione Saba ritrova la contraddittorietà della propria anima, tesa a immergersi nel flusso della calda vita della folla, e assieme bisognosa di isolamento, orgogliosa della propria solitudine.

Trieste è anche un’inesauribile fonte di poesia; di quella poesia delle cose semplici e concrete, un serbatoio di nomi di uomini, di donne, di vie, di piazze, in ciascuna delle quali Saba riflette e ritrova una parte di sé: come in Tre vie, una lirica in cui a ciascuna strada corrisponde un preciso stato d’animo del poeta.

Analisi

Trieste” è la prima poesia di Saba che testimonia la sua volontà di cantare Trieste proprio in quanto tale, e non solo come città natale. Saba ama osservare la realtà che gli sta attorno, che lo circonda. Nella prima strofa il poeta descrive la strada in salita che conduce alla collina affollata, vivace, rumorosa all’inizio e sempre più solitaria alla fine. Sbocca in un piccolo spazio chiuso da un muricciolo, “un cantuccio” che segna il confine della città e lì il poeta siede solo ma non diviso dal mondo che ama. Un mondo paragonato a “un ragazzaccio aspro e vorace”: Trieste diventa un personaggio vivo e autonomo. Il ragazzo possiede una grazia innata, una bellezza spontanea e naturale; i suoi occhi azzurrini, che riflettono il colore del mare di Trieste, evocano tenerezza. Le sue mani sono grandi per un gesto gentile ma dietro questa apparenza si nasconde una grande dolcezza. Questo contrasto viene identificato dal poeta come un amore tormentato dalla gelosia. Dall’alto dell’erta che gli consente di guardare e di abbracciare tutta la sua città, gli pare che “ogni chiesa, ogni via”, “l’ingombra spiaggia” e “la collina”, siano tutti suoi e vivano in lui, avvolti nell’ “aria natia”. Dal suo posto il poeta osserva la vita intorno senza farne parte, ma senza neppure sentirsi estraniato. Sa di poter trovare nella città uno spazio adatto alla sua vita “pensosa e schiva”. Dal punto di vista lessicale si può notare come Trieste nella prima strofa venga identificata con il termine “la città”, nella seconda assume il nome proprio e nella terza “la mia città”.  Questa differenza serve a indicare il passaggio da una visione oggettiva a una soggettiva.

 

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FRATELLI Giuseppe Ungaretti

FRATELLI

Giuseppe Ungaretti

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla

sua fragilità

Fratelli

 

Di che….fratelli? = Il riferimento alla guerra lo si deduce dalla prima strofa della poesia, in questa domanda rivolta ai soldati che stanno passando accanto alla postazione dove si trova il poeta con i suoi commilitoni. Fratelli = rappresenta la parola-chiave del componimento.
Parola = è riferito a fratelli; tremante = la parola fratelli vibra/trema nel cuore della notte (il tremore trasmette il sentimento della paura per l’incertezza sulla propria sorte).

Foglia appena nata: analogia – quella parola di solidarietà, fratelli, è paragonata a una foglia appena sbocciata, fragile, così come è fragile il destino dell’uomo.
aria spasimante = nell’aria che è lacerata da scoppi, spari e lamenti.
involontaria rivolta = [la parola fratelli suona come] ribellione spontanea/istintiva all’orrore della guerra.
presente…fragilità = di ogni uomo consapevole della propria fragilità (cioè della precarietà della sua esistenza).

Tema: La poesia Fratelli in origine si intitolava Soldati (sia nella raccolta Porto sepolto del 1916, sia in Allegria del 1919), nel corso degli anni fu rimaneggiata più volte fino alla stesura definitiva nell’edizione del 1942 dell’Allegria.
Verte su uno dei temi fondamentali del primo Ungaretti: la “fraternità degli uomini nella sofferenza”, nel caso specifico è la fraterna solidarietà che lega i soldati nella condizione di fragilità imposta dalla guerra. Gli uomini legati dal comune destino di morte si uniscono nel comune sentimento di precarietà non solo legato alla situazione contingente ma riferito anche alla condizione umana nel suo complesso. La solidarietà rappresenta l’istintiva reazione (involontaria rivolta) alla constatazione della precarietà umana.

Forma metrica: Cinque strofe di versi liberi. Non essendovi che un solo verbo (siete al v.1) la centralità viene assunta da sostantivi e aggettivi che si affiancano l’uno all’altro.
Dal punto di vista stilistico, Ungaretti rende il linguaggio estremamente suggestivo attraverso l’uso di termini essenziali ed immediati. Poche parole scarne e crude e un termine che scandisce tutta la lirica : fratelli, ripetuta all’inizio e alla fine della lirica.
Spazi bianchi, scomposizione dei versi e pause servono a dare rilievo al valore delle poche e scarne parole utilizzate.

La poesia che segue è la versione definitiva di Fratelli, che troviamo nella raccolta L’allegria del 1943: precedentemente, ne Il porto sepolto, il titolo di questo componimento era Soldato.

Fratelli fa parte delle poesie composte da Ungaretti durante la prima guerra mondiale, mentre il poeta si trovava volontario al fronte. Il tema principale è quindi quello della precarietà della vita, costantemente impregnata di una presenza di morte. Anche in questi versi, come in Soldati, la fragilità umana è espressa dall’autore attraverso il confronto tra individuo e natura: i fratelli commilitoni diventano così “foglie appena nate” (v. 5). Con la definizione di “fratelli” (v. 10) i soldati riacquistano la propria umanità ed intima dignità. Attraverso l’immagine de l’“involontaria rivolta dell’uomo” (vv. 7-8), Ungaretti celebra l’istinto di quest’ultimo alla vita e il desiderio insito nell’ animo di ognuno di sfuggire la morte e la guerra.

La lirica si riconferma molto essenziale, pochi e brevi versi liberi, e grande ricercatezza nella scelta e nell’uso del singolo vocabolo.

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