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LA
PESTE NERA
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L'emblematico incontro fra tre nobili
cavalieri e tre morti a causa della peste
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di
ENRICO BUTTERI ROLANDI
Verso la fine
del XIII secolo si arrestò la crescita demografica che fino a
quel momento aveva caratterizzato l'Europa ed ebbe inizio una
grave crisi economica che si protrasse per circa un secolo e
mezzo. Le cause principali di questa depressione, o almeno
quelle più appariscenti, furono essenzialmente tre: le
pestilenze, le guerre e i mutamenti climatici.
Per quanto riguarda le pestilenze, proprio nel XIV secolo si
registrò la più diffusa e terrificante epidemia di tutti i
tempi che non soltanto provocò con il suo passaggio migliaia
di vittime, ma rimase endemica ricomparendo periodicamente ora
in una regione ora in un'altra anche dopo l'intervallo di
tempo compreso tra il 1347 ed il 1350 durante il quale la
peste devastò l'intera Europa, raggiungendo l'acme in Italia
nel 1348. E' impossibile determinare quanti furono i morti
provocati da questa sciagura, ma si può affermare che mai un
contagio aveva provocato tanti danni: mentre in passato era
stato possibile porre rimedio al brusco calo demografico
attraverso un abbassamento dell'età di matrimonio e a nuove
nascite, dopo la peste del 1348 il recupero fu ostacolato dal
carattere frequente delle epidemie che fecero la loro
ricomparsa a intervalli di circa dieci anni. Chi ha provato a
fare una stima delle vittime ritiene che sia morta una
percentuale compresa tra il trenta e il cinquanta per cento
della popolazione.
La peste ebbe origine in oriente, con ogni probabilità in
Cina, e si diffuse con grande rapidità, raggiungendo nella
primavera del 1347 la prima città europea: si trattava di
Caffa,
in Crimea,
che a quel tempo era un centro di commercio dei Genovesi.
Nell'estate dello stesso anno l'epidemia aveva già colpito
Bisanzio e quasi tutti i porti dell'Europa orientale. Dalle
zone colpite numerose persone cercarono di emigrare e di
raggiungere aree dove fosse possibile sfuggire al contagio,
favorendo così inconsapevolmente la sua diffusione. Ben
presto dunque la peste raggiunse i porti occidentali, in
particolare la Sicilia, Genova, Pisa e Venezia, e di qui si
diffuse in tutta l'Europa.
L'Italia fu il paese in cui il morbo si manifestò con
maggiore violenza, lasciando segni indelebili e conseguenze
che faranno sentire il loro peso anche nei secoli successivi,
tanto che qualche storico ha avanzato la proposta di fissare
proprio il 1348 come simbolica data della fine del Medioevo.
La paura, la sofferenza e la drammaticità della situazione
emergono in modo chiaro e sconvolgente dai racconti dei
cronisti dell'epoca.
La prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita
dall'epidemia nell'Ottobre 1347 fu la Sicilia. Racconta il
francescano Michele da Piazza nella sua Historia Siculorum
che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che
raggiunsero il porto di Messina. Quando i Messinesi intuirono
da chi aveva avuto origine il contagio cacciarono le navi, ma
ciò non bastò a fermare la peste: da questo momento la morte
poteva arrivare improvvisamente. La paura e l'incertezza del
domani determinarono un imbarbarimento dei costumi e la
moderazione lasciò il campo a comportamenti estremi.
Sentimenti come il rispetto e la compassione si affievolirono
sempre di più sostituiti da egoismo e timore tanto nei
confronti dei vivi quanto nei confronti dei morti. Si cercava
di non avere contatti con altre persone che potevano essere
infette e numerose città vietarono l'ingresso a chi proveniva
da una zona già colpita dalla malattia; tuttavia le numerose
eccezioni introdotte a questi divieti non consentirono di
evitare i contatti con i malati favorendo il diffondersi
dell'epidemia. Il fatto poi che in una città la peste
giungesse dopo essere stata importata da un altro Comune
accese una forte conflittualità tra le città non ancora
colpite e quelle dove il morbo si era già manifestato e
infiammò i rancori che già esistevano. Così un medico di
Padova, dove il morbo era stato portato da Venezia, pose in
apertura del suo Regime contro la peste questa
preghiera: "O tu vera guida, tu che determini ogni
cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno,
risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fa' sì
che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse
piuttosto Venezia e le terre dei saraceni …".
Se tra Comuni diversi la situazione era tesa, tra coloro che
abitavano in una stessa città le cose non andavano meglio. Il
carattere improvviso e letale della malattia e terrore di
contrarre il morbo da una persona infetta giustificavano il
sentimento di sfiducia nei confronti del prossimo. Gli stessi
religiosi, che avrebbero dovuto portare gli estremi conforti a
chi stava per morire a causa del morbo, nella maggior parte
dei casi, per la paura di infettarsi, non svolgevano il
proprio compito e ciò contribuiva ad aggravare la situazione
poiché uno dei timori più grandi era proprio quello di
morire senza essere riusciti a confessarsi e a ricevere
l'estrema unzione. Racconta il canonico Giovanni da Parma che
"molti si confessavano quando erano ancora in salute.
Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l'ostia
consacrata e l'olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva
portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano ad
una qualche ricompensa. E quasi tutti i frati mendicanti e i
sacerdoti di Trento sono morti …". Se anche chi
cadeva malato avesse avuto qualche possibilità di riprendersi
superando la fase critica della malattia, il suo destino era
segnato per il fatto che egli veniva abbandonato da tutti, non
soltanto dagli amici, ma addirittura anche dai familiari. In
molte delle opere letterarie che ci parlano del periodo della
peste è presente il riferimento al fatto che la moglie non
volesse più vedere il marito e addirittura il padre non
volesse più avere nulla a che fare con i figli nel caso in
cui fossero stati colpiti dalla malattia. Gli ammalati
rimanevano abbandonati nelle case da cui arrivavano le
invocazioni di aiuto che però rimanevano inascoltate, mentre
i parenti più stretti, piangendo, si mantenevano a distanza.
Emblematico è il racconto di Marchionne di Coppo Stefani,
cronista fiorentino,
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che riferisce:
"… moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e
molti ne morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in
sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli diceano: <
Io vo per lo medico > e serravano pianamente l'uscio da
via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone
e poi da cibo, ed accompagnato dalla febbre si venia meno.
Molti erano, che sollicitavano li loro che non li
abbandonassero, quando venia alla sera; e' diceano
all'ammalato: < Acciocchè la notte tu non abbi per ogni
cosa a destare chi ti serve, e dura fatica lo dì e la notte,
totti tu stesso de' confetti e del vino o acqua, eccola qui in
sullo soglio della lettiera sopra 'l capo tuo, e po' torre
della roba >. E quando s'addormentava l'ammalato, se
n'andava via, e non tornava. Se per sua ventura si trovava la
notte confortato di questo cibo la mattina vivo e forte da
farsi a finestra, stava mezz'ora innanzichè persona vi
valicasse, se non era la via molto maestra, e quando pure
alcun passava, ed egli avesse un poco di voce che gli fosse
udito, chiamando, quando gli era risposto, non era soccorso.
Imperocchè niuno, o pochi voleano intrare in casa, dove
alcuno fosse malato".
Se a Firenze capitava che spesso i malati rimanessero
rinchiusi nelle proprie case a morire, racconta il cronista
Lorenzo de Monacis che a Venezia, invece, il governo cittadino
decise di incaricare degli addetti affinché passassero per le
strade e nelle case a raccogliere i moribondi e i morti, che
comunque rimanevano abbandonati per giorni, e li portassero
nelle isole di San Marco Boccalama o di San Leonardo Fossamala
o a Sant'Erasmo, dove poi sarebbero stati seppelliti in grandi
fosse comuni. Fa rabbrividire il pensiero che "molti
spiravano su queste imbarcazioni e molti che ancora
respiravano rendevano l'anima soltanto in queste fosse".
Ogni famiglia dovette sopportare lutti gravissimi: ad esempio,
Francesco Petrarca dovette subire la morte di un figlio e
della tanto celebrata Laura, il cronista senese Agnolo di Tura
perse addirittura cinque figli. Quelli inferti dal destino e
dalla malattia erano colpi che in tempi normali avrebbero
gettato in una disperazione insanabile chiunque, ma, in questo
periodo particolare, una quotidianità che continuamente
riproponeva l'evento della morte ne rese l'idea così
familiare da provocare un aumento del coraggio e della
resistenza di chi doveva sopportare la scomparsa di un
congiunto. In sostanza, era così facile contrarre la malattia
e morire che la priorità era sopravvivere e solo in un
secondo momento si poteva eventualmente pensare agli altri,
compresi parenti ed amici. Per evitare poi che la popolazione
fosse travolta da una disperazione e da una depressione sempre
maggiori, molti comuni decisero di vietare che si celebrassero
i funerali con l'ordinaria cerimonia e, soprattutto, che si
suonassero a morto le campane poiché, per usare ancora le
parole di Marchionne di Coppo Stefani, all'udirle "sbigottivano
li sani, nonché i malati". Agnolo di Tura riferisce:
"E non sonavano Campane, e non si piangeva persona,
fusse di che danno si volesse, che quasi ogni persona
aspettava la morte; e per sì fatto modo andava la cosa, che
la gente non credeva, che nissuno ne rimanesse, e molti
huomini credevano, e dicevano: questo è fine Mondo".
Si credeva che la malattia fosse una sorta di castigo inviata
da Dio allo scopo di punire la
depravazione
dei costumi che aveva caratterizzato quest'epoca. Si poté così
assistere ad un riaccendersi del fervore religioso della
popolazione che portò ad una ripresa del movimento
penitenziale nel sud della Francia e nelle città del centro e
del nord Europa: una moltitudine di persone scendeva nelle
piazze e per le strade, si recava in processione nelle chiese
della città e si flagellava pregando e invocando il nome di
Cristo e della Vergine Maria affinché proteggessero il mondo
che sembrava prossimo alla fine. La mancanza di sufficienti
conoscenze mediche determinava poi l'impotenza di fronte alla
malattia ed un senso di frustrazione che spingeva a cercare
qualcuno a cui fare risalire la causa e la responsabilità del
contagio: si pensava che, individuando e punendo i
responsabili, l'ira divina si sarebbe placata. Così, come
sempre accade, la colpa dell'epidemia venne fatta ricadere sui
"diversi" dell'epoca, gli Ebrei, accusati di
avvelenare i pozzi delle città e spesso le processioni dei
flagellanti si concludevano con una vera e propria caccia agli
Ebrei che venivano trucidati senza tenere conto del fatto che
anche questi ultimi morivano di peste proprio come tutti gli
altri. Si trattò della più grande persecuzione che il popolo
ebraico dovette subire, prima dell'olocausto del XX secolo. Il
fenomeno delle processioni dei flagellanti e delle cacce agli
Ebrei non interessò comunque, almeno in questo periodo,
l'Italia e le autorità cercarono di contenerlo, pur con
grande fatica, anche nelle zone in cui si verificò a causa di
alcune connotazioni eterodosse che portarono ad una sua
condanna da parte prima dell'Università di Parigi e poi del
Pontefice.
Si diffuse una grande devozione per quei Santi che in qualche
modo erano legati alla peste e dei quali si invocava la
protezione per sfuggire alla malattia e perché salvassero il
mondo da questa immane catastrofe. In modo particolare subì
un forte incremento il culto di San Sebastiano in quanto il
Santo, rappresentato legato ad una colonna e trafitto dalle
frecce, veniva considerato il simbolo dell'umanità trafitta
dagli strali della peste, un'immagine già cara agli artisti
dell'antichità. Durante le frequenti epidemie successive al
1348 si diffuse anche il culto di San Rocco, che, così vuole
la tradizione, mentre si recava in pellegrinaggio a
Gerusalemme da Montpellier, incontrò a Roma la peste nera e
qui si fermò circa tre anni per assistere i malati. Mentre
tornava nella propria città fu vittima egli stesso della
peste nei pressi di Piacenza, ma grazie all'aiuto di un cane e
di un angelo riuscì a guarire e a riprendere la sua strada.
Morì dopo cinque anni di carcere, ingiustamente accusato di
spionaggio.
Di fronte ad uno scenario apocalittico come quello creato
dalla peste, la reazione di gran parte della gente
paradossalmente non fu quella di deprimersi e di pregare
pentendosi dei propri peccati in vista di una imminente fine
del genere umano, ma racconta il Boccaccio nel suo Decamerone
che, dopo una prima fase di disperazione e smarrimento, mentre
alcuni cercavano di condurre un'esistenza morigerata e di
evitare il contatto con altre persone per sfuggire alla
malattia, "altri in contraria opinion tratti,
affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a
torno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito
che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser
medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il
mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a
quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo
e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case facendo,
solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o
in piacere". La situazione dei costumi non cambiò
neppure quando ormai il peggio era passato e i sopravvissuti,
invece di ringraziare Dio per averli risparmiati tenendo una
condotta conforme agli insegnamenti cristiani, secondo quanto
riportato dal cronista fiorentino Matteo Villani nella sua Cronaca,
"… trovandosi pochi, e abbondanti per l'eredità e
successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate
come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e
disonesta vita che prima non avieno usata, però che vacando
in ozio usavano dissolutamente il peccato della gola, i
conviti, le taverne e dilizie con dilicate vivande, e giuochi,
scorrendo alla lussuria senza freno, trovando ne' vestimenti
strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando nuove
forme a tutti li arredi". In realtà la degenerazione
dei costumi era già iniziata prima del diffondersi
dell'epidemia, ma fu questo evento a
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Rappresentazione dell'inferno (metafora
della peste) del pittore Giovanni da Modena (1410)
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provocare una
crescita del tenore di vita e del gusto per il lusso, tanto
che proprio nel periodo successivo alla peste furono
introdotte nuove imposte nelle città per frenare il fenomeno.
Dopo la grande paura regnava il desiderio di divertirsi,
dovuto anche alla possibilità di sfruttare la grande quantità
di sostanze di cui ciascuno poteva disporre, dopo averle
ereditate da coloro che erano stati portati via dal morbo. Il
già citato Marchionne di Coppo Stefani racconta lo stupore
dei sopravvissuti diventati improvvisamente ricchi ed il loro
desiderio di abbandonarsi al lusso in queste parole: "E
tale che non aveva nulla si trovò ricco, che non pareva che
fusse suo, ed a lui medesimo pareva gli si disdicesse. E
cominciorno a sfogiare nei vestimenti e ne' cavagli e le donne
e gli uomini". Una teoria affascinante, anche se
messa fortemente in discussione, sostiene che proprio la
peste, favorendo la formazione di ingenti patrimoni e
provocando al tempo stesso una riduzione delle possibilità di
investimento, abbia creato i presupposti per il sorgere di un
periodo come il Rinascimento: il complesso delle condizioni
createsi fece sì che il denaro venisse utilizzato per
l'acquisto di opere d'arte piuttosto che per finanziare
attività produttive.
Molti morivano senza neppure avere il tempo di fare
testamento, mentre, nella maggior parte dei casi, erano gli
stessi notai ad evitare di recarsi nelle case in cui vi era un
malato di peste o addirittura a fuggire dalle città per paura
di contrarre la malattia. A volte, vista la gran quantità di
lavoro, un notaio coraggioso si limitava a prendere semplici
appunti per trascrivere successivamente le ultime volontà in
un testamento canonico senza però averne il tempo, colto
anch'egli da morte improvvisa. E' bene sottolineare che
nell'Italia e nella Francia del XIV secolo la competenza a
redigere testamenti efficaci era riservata esclusivamente ai
notai, per cui si venne a creare una grande confusione che
continuò a produrre i suoi effetti anche nel periodo
successivo alla fine della peste con centinaia di cause che
produssero il blocco dell'attività dei tribunali.
Come i notai, anche la maggior parte dei medici optò per la
fuga dalla città, che dal loro punto di vista era l'unico
valido mezzo per evitare il contagio, lasciando il campo
libero a curatori improvvisati che vendevano a peso d'oro i
loro inefficaci rimedi. Anche Guy de Chauliac, medico
personale di papa Clemente VI, tentato, ammise: "Per
paura del disonore non osai fuggire. Tormentato continuamente
dalla paura, cercai di proteggermi alla meno peggio …".
La scelta di fuggire e di isolarsi, condivisa peraltro anche
da vari vescovi, di chi soprattutto in quel momento avrebbe
dovuto assistere le vittime della peste si può comprendere
pensando al fatto che coloro che avevano svolto il proprio
dovere avevano a loro volta contratto la malattia morendone.
Chalin de Vinario, altro medico avignonese vicino al papa,
espone in modo chiaro quella che era l'idea prevalente tra i
dottori: "Noi siamo il prossimo di noi stessi. Nessuno
di noi è accecato da una tale follia da occuparsi più della
salvezza degli altri che della propria, tanto più trattandosi
di una malattia così rapida e contagiosa".
Ad approfittare della situazione venutasi a creare furono
soprattutto gli ordini religiosi e le confraternite che mai
come in questo periodo riuscirono ad accumulare ricchezze
grazie ai lasciti testamentari di chi, sentendosi ormai vicino
alla morte, cercava in questo modo di ottenere la salvezza
della propria anima. Tale arricchimento non fu comunque
indolore poiché molti uomini di chiesa che avevano continuato
ad occuparsi dei bisognosi morirono di peste, tanto che in
molte diocesi i vescovi furono costretti a consacrare
sacerdoti giovani che non avevano ancora terminato gli studi
necessari, e anche tra i laici, appartenenti alle
confraternite che assistevano gli ammalati, le perdite furono
altissime, come per esempio nelle Scuole
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Nella
miniatura una delle tante processioni
fatte per invocare la fine del "castigo di
Dio"
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veneziane della
Carità e di San Giovanni dove morirono circa trecento
confratelli.
Gli apparati pubblici si trovarono invece ben presto in
ginocchio in quanto non soltanto la malattia aveva provocato
la morte di gran parte dei contribuenti riducendo
drasticamente le entrate, ma aveva messo in pericolo lo stesso
funzionamento dello Stato. L'elevata mortalità rischiò di
bloccare l'attività degli organi pubblici che non riuscivano
a raggiungere il quorum necessario per adottare delle
decisioni. Questa situazione di stallo portò a Bologna
addirittura ad un tentativo di colpo di stato represso con la
forza. Contribuiva poi al dissesto delle casse dello Stato il
fatto che la morte o la fuga di medici, notai, insegnanti e
militari di professione obbligava le città a reclutare
personale di questo tipo anche forestiero con una vertiginosa
crescita dei compensi dovuta alla sproporzione tra domanda ed
offerta.
Una conseguenza importante della elevata mortalità è
costituita dal fatto che mentre nel momento in cui la crescita
demografica aveva raggiunto il suo apice le città erano
diventate tutte un groviglio di case piccolissime, dopo la
peste lo spazio a disposizione di ogni persona era cresciuto
enormemente. Questo fatto, unito alle maggiori possibilità
economiche di gran parte della popolazione, portò alla
riunione in un'unica struttura di più abitazioni e alla
creazione di grandi palazzi: i sopravvissuti volevano vivere
in spazi più ampi e per questo avviarono una risistemazione
edilizia che mutò radicalmente il volto delle città.
Tuttavia, la ricchezza improvvisamente raggiunta si rivelò a
lungo andare un'illusione. Le possibilità economiche dei
sopravvissuti all'epidemia subirono una crescita non soltanto
grazie ai lasciti dei defunti, ma anche grazie ad un aumento
dei compensi spettanti a tutti i lavoratori, compresi quelli
che svolgevano le mansioni più umili. Era normale: la morte
di molti lavoratori aveva provocato una diminuzione
dell'offerta rispetto alla domanda e di conseguenza un aumento
dei salari. Tuttavia nell'arco di pochi anni la crescita dei
costi di produzione determinò un vertiginoso aumento del
costo della vita andando ad annullare i vantaggi creati dal
precedente aumento della ricchezza. Ad influire poi
sull'andamento dei prezzi c'era anche la grave crisi
attraversata dal settore agricolo determinata non soltanto
dalla scarsità di manodopera, ma anche dalla scarsa
produttività dei terreni.
In generale, la grande peste del 1348 non soltanto determinò
cambiamenti radicali nell'aspetto delle città o nei patrimoni
dei sopravvissuti, ma, cosa ben più importante, mutò il modo
di pensare degli uomini del tempo. Il gusto per il lusso e per
il divertimento diffusosi subito dopo il contagio, nasceva dal
fatto che l'esperienza della peste aveva evidenziato in modo
drammatico l'incertezza del domani, tanto che ai più sembrava
senza senso preoccuparsi del futuro investendo i propri averi
in nuove attività produttive o nell'educazione dei figli. Il
patrimonio veniva così utilizzato essenzialmente per il
soddisfacimento del proprio piacere personale e il capitale
accumulato in conseguenza della peste venne nella maggior
parte dei casi sperperato. Tuttavia, gli effetti della nuova
concezione della vita nata durante l'infuriare del flagello
non furono del tutto negativi: se certamente non si può
attribuire esclusivamente alla grande peste il merito del
rinnovamento culturale che caratterizzò il periodo
successivo, essa, cambiando la mentalità dei sopravvissuti,
diede comunque un contributo fondamentale al sorgere di quelle
che saranno tra le epoche più fiorenti della nostra storia,
cioè l'Umanesimo ed il Rinascimento.
http://www.storiain.net/arret/num53/artic7.htm
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