Natali

Che abbiamo a che fare con la morte solo per approssimazione ci è abbastanza noto, come suggerisce Epicuro in poche ed efficaci parole: quando ci siamo noi lei ancora non c’è, e quando lei giunge non ci siamo più noi. Neanche il tempo per le presentazioni, tentiamo di acchiapparla e lei ci sfugge; e noi con lei.

         Non così ricorrente è il pensiero di quanto ci sfugga l’altro confine dei nostri giorni, quello da cui tutto inizia: non siamo padroni del nostro nascere non solo per non averlo deciso (ce lo ricordano i versi di Jim Morrison scolpiti su tanti diari adolescenti non volevo nascere / e sono nato) ma anche per l’impossibilità di quella particolare forma di appropriazione di noi stessi e della nostra identità che è la memoria. Per una salutare strategia conservativa cancelliamo il ricordo traumatico dell’abbandono di quel nostro primordiale brodo di giuggiole che è stato il grembo materno. E non ci è dato di riascoltare il nostro primo respiro come invece ricordiamo il profumo della conserva della nonna o dello zucchero filato, di riudire il nostro primo vagito come invece accade per la prima rocambolesca dichiarazione d’amore (fatta; chi mai l’ha ricevuta? e fatta invano, per lo più) o di riassaporare il primo invitante colostro così come il critico Ego di Ratatouille si rituffa nel piatto di verdure provenzali cucinato da una premurosa mamma. Ci sfugge la sofferenza costata a una donna nel metterci al mondo, la trepidazione del suo primo abbraccio odoroso di pelle e sudore buoni, lo sguardo curioso e indagatore di somiglianze dei parenti, le lenzuola profumate di culla.

Salvo inferirlo a partire dal fatto che siamo vivi, sappiamo del nostro nascere solo grazie a chi ce lo attesta: nel racconto di chi c’era, nelle immagini ritratte, nei documenti dell’anagrafe e nella celebrazione delle ricorrenze. Nascere è un’esperienza tutta nostra della quale però possiamo appropriarci consapevolmente solo con la mediazione di altri. Può capitare, amaramente e tragicamente, di morire soli; ma non si nasce mai soli: c’è sempre, almeno (e non è poco) una madre e un posto in cui si viene al mondo.

Chi ci rammenta la nostra nascita fa memoria del nostro esistere, custodendo il ricordo del nostro venire al mondo si coltiva la dignità di ciascuno di noi. E allora ringraziamo gli amici che ci hanno raccontato di Samb Modou e Diop Mor, nati in Senegal un certo giorno e tanti giorni prima di essere assassinati dalla follia razzista di una triste persona, armata dall’odio di idee poco tolleranti e tollerate troppo; e comprendiamo che il Caro Leader nordcoreano Kim Joing Ill sia nato ad una incerta data di 69 anni fa o giù di lì, dato che i superpoteri personali si fondano sull’ineffabilità delle stesse persone e non hanno bisogno che qualcun altro li custodisca; e leggiamo così i prodigi intorno alla nascita di Siddartha, Gesù, il Profeta, tutti lì – elefanti bianchi e cori angelici – a scolpire nel racconto un momento destinato ad essere ricordato per come, con quella nascita, è rinata la storia stessa.

 Certo l’Eterno, quando voglia sperimentare il brivido della storia, potrà concedersi qualche cosa in più: scegliersi la madre più bella, suggerire il nome che vuol che gli si dia, contornarsi di effetti prodigiosi data la caratura del personaggio in arrivo. Ma per entrare davvero in quella storia a cui intende conferire un senso dovrà pur sempre curvarsi e nascere sotto una buona stella, soprattutto non potrà che apprendere di sé dalla voce di altri: certamente almeno (e non è poco) da una madre, forse anche da un padre, e un asino e un bue

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