Giornata Bianca

Se ogni giorno avesse un colore dominante… Come del resto già ce l’hanno le diverse ore dello stesso giorno: le albe rosate come i tramonti rosseggianti, i mezzogiorni infiammati come le notti blu-che-va-al-nero, con quelle meravigliose montagne azzurre di neve baciata dalla luna. Ogni giorno un colore, sette quelli della settimana, sette questi dell’arcobaleno.

Non è così ed è un bene: niente noia e ripetizione, infinite sfumature tra un colore e l’altro – le cinquanta di grigio sono ancora niente – come gli accidenti tra le note, possibilità quasi illimitate di armonie e disarmonie. E di pause. E di corone sulla testa delle note.

Così è la giornata bianca. Che a scuola suona tutti sulle piste, o a casa a dormire (perché bianche possono essere anche le notti), in ogni caso vuote le classi. Pausa, appunto. E se ve la fanno prendere quando già la scuola è in pausa la faccenda puzza…

Così è stata la giornata di oggi, 11 febbraio. Giorno di neve che per un attimo copre i colori rutilanti del carnevale.

Bianca come la resistenza di chi insegna a lottare con le armi della nonviolenza, della disobbedienza di fronte ai poteri ingiusti o semplicemente troppo forti, e alle loro leggi, e alle parole tonanti dei loro uomini. Era l’11 febbraio di quarantotto anni fa quando don Milani scriveva ai cappellani militari che l’obbedienza non è più una virtù, e la vera guerra è tra ricchi e poveri e non tra italiani e stranieri; sciopero e voto le armi, non quelle troppo spesso da uomini di dio benedette, macchine di morte con cui cittadini di patrie diverse siano costretti a squartarsi generando orfani e vedove.

Bianca è il piccolo fiocco di neve nata a mezzogiorno di oggi: leggera perché la terra la possa accogliere con niente più di un fremito; e ascoltare il suo, primo, di fremito che già contiene tutta una vita.

Bianca è la figura che ha dominato la scena delle cronache di oggi: quel papa canuto che finalmente, dopo otto anni di ordinario governo, ha tenuto fede all’impegno assunto al momento della sua elezione, di rinnovare il modo di intendere il ministero petrino. E così ha fatto: dimettendosi non con la pompa magna dei congedi di uomini illustri – sfuggendo così anche a quella specie di rituale romuleo che sono i funerali del papa regnante – ma comunicandolo in latino al concistoro dei cardinali che, vuoi la lingua vuoi l’età, probabilmente nemmeno hanno colto tutti subito che cosa accadesse; lontano dai riflettori, senza immagini che rimbalzino di qua e di là per il mondo come accadeva per le apparizioni nelle adunate oceaniche; indicando la fine in un’ora di un giorno qualunque, l’ora di cena di un giorno di fine mese, non l’inizio di un tempo liturgico o la scadenza di qualche eone; e un piccolo posto dalle sue parti in cui ritirarsi, non tanto lontano da potersi ritagliare ancora una qualche fetta di potere, come i vecchietti terminano i loro giorni nella casa di riposo del proprio paese.

Bianco e tutto da scrivere è il ripensamento (finalmente) di una figura, quella del papa, che con l’età moderna è stato sempre più sacralizzato (e mediatizzato, che è il modo contemporaneo di consacrare cose e persone); di una figura che fino a quattro papi fa nemmeno poteva uscire da Roma e prendersi un treno, tanto era separato dal mondo profano, che fino a due papi fa nemmeno poteva subire un’autopsia, tanto intoccabile la sua salma, che fino allo scorso papa nemmeno poteva curarsi in ospedale, tanto inviolabile il suo corpo. Ora può ritirarsi e continuare ad esistere; desacralizzarsi e così facendo desacralizzare anche il prossimo, e quelli futuri…

Certamente ci sarebbero altre considerazioni da fare: sul valore politico della scelta anche rispetto ai contrasti in seno al Vaticano, che le trombe di regime sempre intonate in maggiore non permettono di far debitamente affiorare; sulle modalità di scelta del papa in una struttura quale la chiesa; sugli ulteriori passi da fare nel modo di conciliare il ministero di Pietro e la sensibilità delle diverse espressioni del mondo cattolico, di tutti i cristiani, del mondo intero. Considerazioni che andavano già fatte ieri; e che sarà necessario svolgere domani.

Ma oggi non si può che ringraziare per tutto il bianco che, con la neve, è sceso dal cielo.

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anniversari…

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“Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo.
Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi…”

Gandhi

(assassinato il 30 gennaio 1948)

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Quattro regine ha il mio mazzo di carte

Quattro regine ha il mio mazzo di carte.

La regina del regno di sotto. La regina del regno di sopra. La regina del regno che è altrove. La regina del posto in cui è.

La regina del regno di sopra si fa sempre annunciare per prima;
nei suoi occhi rincorre una cima, nei capelli un brillante di stelle,
sono aquile i nei sulla pelle della dama regale di cuori.
Sotto i piedi soltanto i dolori di chi ali non ha.

La regina del regno di sotto ama i fiori e le amare radici:
nidi al suolo di nere pernici, labirinti scavati nel fango.
Sua corona è un giro di tango con chi scende a saggiare la terra
per amore, per fame o la guerra. Ma paura non fa.

La regina del regno di altrove veste un abito chiaro di velo
da cui fugge a ogni moto del cielo; i suoi quadri hanno azzurri orizzonti,
i torrenti rincorron le fonti: la cornice d’invidia arrossata
non trattiene la gazza spiccata. E lontana lei è già.

La regina del posto in cui è non necessita un re. Le sue picche sono armi spuntate,
non invoca temibili armate, la sua forma descrive il disegno
che trasforma ogni luogo in un regno: il suo letto, un anfratto, il ruscello,
merli di un incantato castello. Dove lei dormirà.

Il re di cuori non ha ali. Lo chiamano Icaro per consolarlo. Il re di fiori non ha cuore. Si fa chiamare Ade, per suscitare timore. Il re di quadri ha solo un fiore rosso. Vorrebbe farsi chiamare Barbarossa, ma si chiama Barbablù. Il re di picche è chiunque abbia ali sognate dalla regina. Avrà quelle ali quando saprà scorgere in lei dormiente i tratti di una regina. Il re di picche non ha altri nomi che il tuo.

In ogni regno c’è un asso. È potente. A volte fa lobby con gli altri assi. È subdolo. Si associa alla cricca delle carte che poco valgono per stare nell’ombra, si traveste dal più piccolo di tutti e mira al potere che è sopra ogni re. Lo chiamano Amman. È come le banche. Ogni regno ha un popolo che è tutte le cifre, e quindi tutte le combinazioni. Di re e regine forse non c’è più bisogno. Ogni tanto spunta un jolly, ma non c’è da fidarsi.

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(tra parentesi)

 

 Le vacanze, finalmente. Chiamiamola pure parentesi estiva, ma con non troppa leggerezza.

Intanto la parentesi si apre ma in quel momento evoca già la chiusa; è l’inizio che contiene la fine, come ogni inizio del resto. E soprattutto viceversa, ogni fine porta sempre dentro di sé l’inizio quale che sia stato il seguito. Che vuol dire rimpallare la questione a quanto si è pessimisti o ottimisti. 

      Tra l’inizio e la fine quante cose da risolvere, da specificare o da lasciare lì in sospeso, in ogni caso quanta vita. Ecco perché le parentesi hanno una forma sempre contenitiva: concava di qua o di là la tonda, più spigolose le quadre, arzigogolate e quasi bizantine le graffe ma tutte capaci di adattarsi. Come il flanellone della nonna, come la corteccia dell’albero, come la nostra pelle.     

  Non la metti così come capita, la parentesi: dalle {[(matrioske)]} dei  matematici alla più rassicurante (tonda e gentile) dei  letterati, essa definisce le cose del mondo, i numeri i pensieri ed il loro ordine. Ma al pari di tutto ciò che si usa per distinguere, dai tempi delle presunte razze di de Gobineau e anche molto prima, anche le parentesi finiscono per costruire gerarchie: all’interno le cose più trascurabili, fuori quelle essenziali; hai mai sottolineato qualcosa tra parentesi? (a meno che tu non sia di quelli che evidenziano di giallo tutto il libro, ma quella è arte totale). Eppure, se quelle cose ce le metti dentro, saranno anche meno importanti nel modo diffuso di classificare le cose ma tu ci tieni a farle sapere: e allora le parentesi diventano un accogliente scrigno di perle non necessarie ma assai preziose, come tutto ciò che rende più bella e intrigante la vita, tra la mera sopravvivenza e quel tutto che è troppo per sperarne qualcosa.

Non sappiamo se le parentesi siano sorelle oppure coppie di innamorati: troppo simmetriche per essere innamorate, troppo simili per essere sorelle a meno che non siano gemelle (e monozigoti, tra parentesi). A volte sembrano i tradizionali gendarmi, troppi quando sono in tre e pochi se lasciati soli con Pinocchio, due giusto per le barzallette. O forse è solo qualcuno che si guarda allo specchio indovinando però la differenza che c’è tra sé e la sua immagine e riempie quello spazio con lo sguardo di altri.

 

Ci sono le parentesi usate a scopi diversi: le zitelle postnumeriche 1) 2) 3) 4) degli elenchi puntati e numerati, e che sfiga non poter fare quello per cui hai studiato. O quelle schiaffate a fare la bocca di quelle facce da schiaffi che sono gli emoticons: condannate a fare il sorrisino a vita che anche un sofficino findus prova pena per loro. 🙂

Ci sono quelli che parlando ne aprono tante di parentesi, e si scordano di chiuderle e così divagando fanno prendere aria al logos; discorsi sospesi come un ponte tibetano capace di vibrare ad ogni colpo di vento, sentieri interrotti nella ricerca di un senso che non è mai un senso unico.

Eccole, le parentesi: una piccola cosa nel mondo ma capaci, in due, di contenere un mondo dentro. O almeno un’estate. Tra parentesi: buone vacanze!

   

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La neve sporca

 

Dopo. Ammucchiata in un piazzale o aggrappata ai marciapiedi, sorprendente in un posto qualunque purché in ombra e resistente a quei primi caldi speranzosi e spietati come adolescenti. La indovini dai rivoli in cui si trasforma, sotto una coltre di quello sporco prosaico che siamo noi quando scarichiamo nell’aria e sulla terra quanto resta del consumo di strade, di case e di cose. Com’è triste, a prima vista, la neve sporca: è disincanto e sospetto che ogni magia sia falsa, come il trucco su di una pelle raggrinzita, come svegliarsi al mattino dei giorni brutti e difficili, come la domenica del leopardiano villaggio in cui il dì di festa è smascherato per quello che è: la fine delle attese. L’inganno.

Prima. Non più plumbeo di tempesta né così terso da far corona al capo del re sole, un cielo bianco cotone aveva dedicato una delicata punteggiatura di piccoli tocchi delle sue dita ad una terra che attendeva tenerezza e giustizia. E la neve soffice e tenace tutto aveva coperto e tutti, rivelando come in sogno il lato uguale delle cose che è il loro poter scomparire da un momento all’altro, senza che questo sia già accaduto del tutto. Erano rimaste le differenze, e anzi le volevi ancor più intensamente nel loro concerto di curve e profili in cui sprofondare carezzandole, in una sorta di dantesco indiarsi di tutte, quelle cose. L’incanto.

Il prima e il dopo. L’incanto e l’inganno. È questa la parabola, semplice e discendente, di tutto ciò che tende a un punto, del senso della storia e degli amanti? È la vittoria del verso di R.M. Rilke sulla potenza fragile dei baci appassionati?

Gli amanti, lo vedi, non sanno / che un bacio rovina l’incanto / che allora comincia l’inganno.

Se è l’istante prima a contenere già tutti gli istanti dopo; se per questo Giano Bifronte, che è l’istante stesso, il dopo è sempre inganno dell’incanto di prima, quale speranza può abitare il tempo e l’amore, il tempo dell’amore,  senza condannarlo a esser cieco? Quale soglia varcare senza capitare così negli inferi del disincanto?

Avvicinarci al cumulo di neve sporca che sembra non poterci più attrarre, carezzarne la crosta incatramata fino a scoprirne il candore di prima e con esso, ancora una volta, l’incanto; riscrivervi sopra con le dita perché l’istante dopo diventi il tempo di una nuova attesa, in cui gli amanti tornino a sognare il loro bacio, la storia il suo senso pieno, la terra la neve; sapere che l’inganno delle scorie grigie è da noi che nasce, non dal cielo né dal destino della neve stessa; aprirsi, come Qoelet, a vivere ogni istante per ciò che è, noi come siamo, abituando il cuore alla sofferenza e alla speranza nascoste insieme nelle attese che finiscono: perché lì, nell’istante dopo, è lo spazio dell’inganno come dell’incanto di nuovi baci, e nuova neve.

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Natali

Che abbiamo a che fare con la morte solo per approssimazione ci è abbastanza noto, come suggerisce Epicuro in poche ed efficaci parole: quando ci siamo noi lei ancora non c’è, e quando lei giunge non ci siamo più noi. Neanche il tempo per le presentazioni, tentiamo di acchiapparla e lei ci sfugge; e noi con lei.

         Non così ricorrente è il pensiero di quanto ci sfugga l’altro confine dei nostri giorni, quello da cui tutto inizia: non siamo padroni del nostro nascere non solo per non averlo deciso (ce lo ricordano i versi di Jim Morrison scolpiti su tanti diari adolescenti non volevo nascere / e sono nato) ma anche per l’impossibilità di quella particolare forma di appropriazione di noi stessi e della nostra identità che è la memoria. Per una salutare strategia conservativa cancelliamo il ricordo traumatico dell’abbandono di quel nostro primordiale brodo di giuggiole che è stato il grembo materno. E non ci è dato di riascoltare il nostro primo respiro come invece ricordiamo il profumo della conserva della nonna o dello zucchero filato, di riudire il nostro primo vagito come invece accade per la prima rocambolesca dichiarazione d’amore (fatta; chi mai l’ha ricevuta? e fatta invano, per lo più) o di riassaporare il primo invitante colostro così come il critico Ego di Ratatouille si rituffa nel piatto di verdure provenzali cucinato da una premurosa mamma. Ci sfugge la sofferenza costata a una donna nel metterci al mondo, la trepidazione del suo primo abbraccio odoroso di pelle e sudore buoni, lo sguardo curioso e indagatore di somiglianze dei parenti, le lenzuola profumate di culla.

Salvo inferirlo a partire dal fatto che siamo vivi, sappiamo del nostro nascere solo grazie a chi ce lo attesta: nel racconto di chi c’era, nelle immagini ritratte, nei documenti dell’anagrafe e nella celebrazione delle ricorrenze. Nascere è un’esperienza tutta nostra della quale però possiamo appropriarci consapevolmente solo con la mediazione di altri. Può capitare, amaramente e tragicamente, di morire soli; ma non si nasce mai soli: c’è sempre, almeno (e non è poco) una madre e un posto in cui si viene al mondo.

Chi ci rammenta la nostra nascita fa memoria del nostro esistere, custodendo il ricordo del nostro venire al mondo si coltiva la dignità di ciascuno di noi. E allora ringraziamo gli amici che ci hanno raccontato di Samb Modou e Diop Mor, nati in Senegal un certo giorno e tanti giorni prima di essere assassinati dalla follia razzista di una triste persona, armata dall’odio di idee poco tolleranti e tollerate troppo; e comprendiamo che il Caro Leader nordcoreano Kim Joing Ill sia nato ad una incerta data di 69 anni fa o giù di lì, dato che i superpoteri personali si fondano sull’ineffabilità delle stesse persone e non hanno bisogno che qualcun altro li custodisca; e leggiamo così i prodigi intorno alla nascita di Siddartha, Gesù, il Profeta, tutti lì – elefanti bianchi e cori angelici – a scolpire nel racconto un momento destinato ad essere ricordato per come, con quella nascita, è rinata la storia stessa.

 Certo l’Eterno, quando voglia sperimentare il brivido della storia, potrà concedersi qualche cosa in più: scegliersi la madre più bella, suggerire il nome che vuol che gli si dia, contornarsi di effetti prodigiosi data la caratura del personaggio in arrivo. Ma per entrare davvero in quella storia a cui intende conferire un senso dovrà pur sempre curvarsi e nascere sotto una buona stella, soprattutto non potrà che apprendere di sé dalla voce di altri: certamente almeno (e non è poco) da una madre, forse anche da un padre, e un asino e un bue

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La prospettiva degli angeli

2 ottobre: è, insieme alla festa dei nonni (istituita a suo tempo da un presidente della repubblica-nonno), anche la festa degli angeli custodi. Per quanto riguarda i nonni oggi è sicuramente cambiata non solo, fortunatamente, l’aspettativa ma anche la prospettiva di vita: i vecchietti accanto al focolare nella casa che sa di stantio, con la coperta sulla sedia a dondolo e un po’ di giochi del tempo che fu capaci comunque, sempre, di accendere la fantasia dei nipotini, hanno ceduto il passo non solo ai giovani-dentro da crociera e da balera, ma anche ai post-anziani hi-tech capaci di reggere il passo dei nipoti 2.0 e con loro interagire tanto su di un pavimento reale quanto su di una piattaforma virtuale. Moderni angeli custodi dei nipotini e del trantran settimanale delle loro famiglie.

È forse tempo allora di operare un cambiamento di prospettiva anche sugli angeli. Ci aveva provato a suo tempo lo Stilnovo, cogliendo la potenza dello sguardo dell’innamorato nel trasformare la donna amata in angelo (che poi è lo sguardo dell’innamorato di tutti gli evi); più proiezione che prospettiva però, come ci avrebbe chiarito in seguito Freud o qualcuno da quelle parti. E poi, dice amaramente qualcuno, passa presto…

Ci aveva provato alla fine degli anni Ottanta il regista Wim Wenders gettando lo sguardo al cielo sopra Berlino e, di qui, a Berlino sotto il cielo; Damiel e Cassiel, angeli custodi della memoria del passato e del presente, osservavano con i soli toni del bianco e del nero (e dunque molto, molto grigio) le fatiche degli umani in piena guerra fredda fino ad intuirne i sentimenti: la fatica di vivere, l’impotenza di fronte al male o l’emozione di un volteggio sui trapezi. Fino a scegliere, come nel caso di Damiel, di cadere dalla propria condizione per farsi umano e così sperimentare il dolore e l’amore, la musica e soprattutto il colore.

Oltre quella dello sguardo angelicante e un po’ gelatinoso, oltre quella dell’angelo che si fa uomo per sperimentare la vita umana nelle sue emozionanti pieghe, esiste anche un’altra possibile prospettiva: quella dell’uomo che si fa custode dell’altro e diviene – inconsapevolmente – angelo. Angelo è ciascun essere umano quando incontra un senso ed uno scopo alla propria vita nel custodire: non tanto o non solo l’incolumità dell’altro, ma il bene che è in lui o in lei; perché ciascuno è un groviglio di cose buone e non buone, senza scomodare l’angelo (guarda un po’…) o la bestia pascaliane. L’uomo custode sa che dipende pure da sé il fatto che l’altro le esprima, quelle potenzialità buone o meno; che le persone sono fatte di sfumature, non etichettabili in prima battuta né riducibili alle proprie aspettative; che le sorti dell’altro, da qualsiasi parte del pianeta si trovi, sono legate al proprio modo di custodire o consumare il mondo; e che la stessa felicità di cui ciascuno ha sete necessita di un custode della sua acqua buona. Forse allora l’antica preghiera dell’angelo custode è riscrivibile invocando su di sé la capacità di offrire uno sguardo luminoso all’altro, di custodire il bene di cui l’altro è portatore, di sorreggerlo ed accompagnarlo nella precarietà, con la consapevolezza che in tutto ciò non vi sia niente di eroico o miracoloso ma che questo sia semplicemente, autenticamente, l’umano.

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La pagella

La pagella nessuno ormai la vede più, chiusa in un fascicolo che sta altrettanto chiuso in un archivio, a sua volta chiuso a scuola: insomma, sa di chiuso, per quanto la immaginiamo aperta e fresca come i primi giorni d’estate quando il campanello annuncia l’ultima prova antincendio o, se Dio vuole, la fine di ogni reclusione scolastica. A volte nemmeno il suo surrogato che l’istituzione spedisce a casa nessuno la vede, specie i genitori di alcuni dei più sfortunati: sfortunati allo studio ma fortunati nelle intercettazioni. Non la si vede più, è colpa dell’elettronica biascichiamo in tanti sibilando, attraverso la dentiera che un giorno sarà, la rabbia non tanto contro il cielo del progresso quanto contro le terrene connessioni che a volte sono lente, a volte invece proprio non funzionano.

Se anche esistesse, quella cartacea, potrebbe non sembrare il più importante pezzo di carta della scuola. Ci sono quei bigliettini micro che fai nei cambi d’ora quando sembra di entrare nel laboratorio degli elfi di babbonatale: non per tenerli durante la verifica dell’ora dopo, dici, ma perché ti aiuta a ripassare mentre lo prepari. E l’insegnante a dover decidere in un nanosecondo se avvallare quella che potrebbe essere la madre di tutte le ingiustizie che compirai nella vita (“è tutta colpa della scuola” si dirà un giorno) o se invece considerare che anche questo è spirito adattivo mediante le arti concepite dall’arto cerebrale; magari limitandosi ad una generica soffiata al collega (“gran bastardo” si dirà un giorno; ma tant’è, in quel giorno come in tutti i giorni ci sarà sempre qualcuno che dovrà dire qualche cosa). Ci sono poi i bigliettini che girano al sabato con la cartina per arrivare alla festa, che puntualmente si trova nella casa in campagna in fondo alla seconda stradina dopo la cappella e l’ennesima fotocopia te l’ha cancellata, e tu davanti ad una cancellata ci arrivi quella sera, ma è tutto buio e due mastini ti accolgono a denti digrignati. C’è poi la carta igienica. Anzi non c’è, non perché sia indecoroso parlarne ma perché per qualche ragione contabile o di capitolato proprio non la trovi (non la cercherai nel bagno degli insegnanti, recita il comandamento, perché la contabilità arriva fino lì).

Non la vediamo più, ma sappiamo che è piccola la pagella: lo dice il nome stesso, o meglio ce lo dicono i latinisti che con il loro gusto di mettersi tra i nomi e le cose ci ricordano quanto siano importanti i nomi. E le cose soprattutto. È piccola come Davide, ed i suoi colpi sono ugualmente capaci di annientare il gigante GOLIA. Non sempre precisi: un anno di epiche fatiche vanificate da un cinque, nove mesi di furba nullafacenza (otto, via) premiati col sei; e poi il dieci che salta fuori come un coniglio dal cilindro, il quattro e cinquanta arrotondato a quattro per far capire che sei davvero bocciato, aiutino-sì aiutino-no come nella terra dei cachi scolastici. A volte però ci azzeccano: in quel 6/7 (che razza di voto però, specie se lo dici a parole “dal sei al sette”, che ogni filosofo da Zenone in poi sa benissimo che non ci si può arrivare dal sei al sette senza sprofondare nell’infinita divisibilità), in quell’otto meno, ci sono migliaia di pagine il cui attraversamento prende forma, schemi e ripassi che sembra siano serviti a qualche cosa.

Eccoci al dunque. Piccola pagella ma grande rischio: che l’importante sia solo la quantificazione del risultato, la pretesa di esattezza, la tentazione del giudizio sulla persona, il confronto dei voti (lo facciamo tutti fin da piccoli, allievi insegnanti e anche qualche genitore…). E allora? La pagella non è tutto ma è qualcosa; non esaurisce tutto ciò che sei, ma c’è qualcosa di te dentro. Proprio come fanno in generale i numeri: non coincideranno mai con il mondo delle cose, ma ti diranno sempre quali sono i loro confini e la loro tendenza all’in-finito, le loro relazioni, la necessità e l’ipotesi, l’assurdo e l’assoluto.

Un giorno la prenderai in mano quella pagella e di essa resterà lo sguardo che hai imparato sul mondo, la fatica la lotta le soddisfazioni e gli affetti che nella scuola ti sono toccati. La prenderai in mano perché, alla fine ma solo alla fine, la scuola quella piccola pagella cartacea te la darà. La cartina esatta della festa, come invece avrai capito, no.

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Riposino in pace

Ditemi che Obama ha vinto il nobel per la letteratura, per come ha raccontato con mirabile lucidità la fierezza viscerale di un popolo che sazia il dolore per le proprie vittime vendicandolo con il sangue fiottante dal foro in testa del mandante della loro strage; o per come si è inventato la morte di Osama per poter accompagnare in occidente quel grumo di odio e livore, a vedere come anche negli States ci sono uomini e donne che discutono, amano, si affezionano, progettano la vita. Non ricordatemi per favore il suo nobel per la pace, perché la pace si costruisce mediante diritto e giustizia e non epurando spudoratamente il mondo dai cattivi, così come capita, senza nemmeno l’ipocrisia di chi ci prova, a catturarli e processarli.

Non ci provate a chiamare buonismo quella ricerca di una giustizia più giusta: quella giustizia che nella storia si è faticosamente fatta strada con i tribunali prima che nei tribunali, e che ancora fatica a fecondare l’ultimo ambito selvaggio che è la scena internazionale. Chi accetterebbe – fuor di viscere – la vendetta all’interno di uno stato di diritto? Si può capirla, attenuare la responsabilità del vendicatore sulla base di uno stato emotivo compromesso, ma gli stati che sono istituzioni troppe emozioni non se le possono permettere, il loro diritto giusto fissa confini razionali obbligando a doveri e promuovendo diritti.

Nella notte del diritto internazionale e nel buio di una giustizia che ancora una volta non sarà offerta alle vittime né ai carnefici, la morte di Osama inchioda quest’ultimo alle stragi compiute senz’altra possibilità, inchioda le vittime alla vendetta senza offrire loro la giustizia di chi riconosce di fronte ad esse il male loro inferto, trovando forse un giorno anche le ragioni per chiedere e dare perdono; ed inchioda noi, spettatori, al coro di cantanti contenti per la morte di un uomo e per questo un po’ più morti dentro, o alla gradinata dove siedono schiere di disillusi e disincantati rispetto alla pace.

Non c’è pace in tutto questo. Almeno requiescant, in pace.

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di passaggio… buona Pasqua!

Ogni festa nasce come celebrazione di un passaggio. La festa di Pesach (Pasqua) nasce per celebrare il passaggio di Israele tra le acque del Mar Rosso ossia dalla schiavitù alla libertà, o nella sua risignificazione cristiana da quella schiavitù dell’essere e dell’immaginare che è la morte alla libertà da ogni minaccia radicale del senso promettente dell’esistere. La festa di Pesach non è un passaggio, ma la madre di ogni passaggio di vita, alla vita, ad una vita più piena. Buon Pesach allora

a te che passi qui i tuoi giorni,

a te che stai passando la frontiera,

a te che passi da un lungo inverno alla prima primavera,

a te piccoletto che presto muoverai i primi passi,

a te che non ti passa mai, né la scuola né il resto,

a te che passi senza che io me ne accorga,

a te che passo senza che tu te ne accorga,

a te che le offri sempre un passaggio e speri che sia il primo di una lunga serie,

a te che pensi che il passato non debba mai tornare perché ancora oggi lo temi,

a te che resti inchiodato al tuo passato senza poter vivere il presente e aspettare un futuro,

a te che preferisci la passata di pomodoro perché quello intero è ancora da pulire,

a te che vedo fermo ad aspettare di fronte al passaggio a livello,

a te che vedo sfrecciare in treno mentre aspetto al passaggio a livello,

a te che sei passato a miglior vita. Sperando che sia migliore…

a te che passi il tempo sapendo bene il come, meno il perché,

a te che sei di Passatore anzi del Passatore,

a te che ti fidi solo del passaparola,

a te che passi con disinvoltura dal lei al tu e ritorno,

a te che tutto passa…

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