PASCOLI

“TEMPORALE”

Un bubbolìo lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.

Il lampo

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’apri si chiuse, nella notte nera.

 

Il Tuono

E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.

La siepe”

I

Siepe del mio campetto, utile e pia,
che al campo sei come l’anello al dito,
che dice mia la donna che fu mia

(ch’io pur ti sono florido marito,
o bruna terra ubbidïente, che ami
chi ti piagò col vomero brunito…);

siepe che il passo chiudi co’ tuoi rami
irsuti al ladro dormi ‘l-dì; ma dài
ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;

siepe che rinforzai, che ripiantai,
quando crebbe famiglia, a mano a mano,
più lieto sempre e non più ricco mai;

d’albaspina, marruche e melograno,
tra cui la madreselva odorerà
io per te vivo libero e sovrano,

verde muraglia della mia città.

II

Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
ma salvi il frutto pendulo del pero.

Nulla fornisci alle anfore segrete
della massaia: ma per te, felice
ella i ciliegi popolosi miete.

Nulla tu rendi; ma la vite dice;
quando la poto all’orlo della strada,
che si sente il cucùlo alla pendice,

dice: – Il padre tu sei che, se t’aggrada,
sì mi correggi e guidi per il pioppo;
ma la siepe è la madre che mi bada. –

– Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo –
rispondo. I galli plaudono dall’aia;
e lieto il cane, che non è di troppo,

ch’è la tua voce, o muta siepe, abbaia.

III

E tu pur, siepe, immobile al confine,
tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
dici un divieto acuto come spine;

dentro, un assenso bello come fiori;
siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
come la fede che donai con gli ori,

che dice mia la donna che fu mia.

 

                     Nebbia

 

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

 

 

“Nella nebbia “

I

E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.

E c’era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.

E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.

Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;

eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

Chiesero i sogni di rovine: – Mai
non giungerà? – Gli scheletri di piante
chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? –

Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.

Sentii soltanto gl’inquïeti gridi
d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,
e, per il mar senz’onde e senza lidi,

le péste né vicine né lontane.

 

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LA PAGA DEL SABATO

FENOGLIO-LA PAGA DEL SABATO

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UNA QUESTIONE PRIVATA

Una questione privata

Una questione privata è un romanzo di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nell’aprile del 1963, due mesi dopo la morte dell’autore. Il libro tratta un tema carissimo a Fenoglio, ossia la guerra partigiana negli anni finali della seconda guerra mondiale. La prima edizione fu pubblicata da Garzanti.

Trama

La vicenda prende come sfondo la guerra di resistenza nelle Langhe. Il protagonista è un giovane partigiano ventenne, militante nelle formazioni badogliane, con il nome di battaglia di Milton. Egli è un ragazzo insicuro e poco socievole, che trova nella lingua inglese l’unico rifugio dove si sente veramente sicuro di sé. Milton è innamorato di Fulvia, una giovane ragazza di Torino, sfollata per qualche tempo ad Alba, prima dell’armistizio del settembre 1943. Il ragazzo molto spesso scriveva lettere alla sua amata e su sua richiesta, traduceva diverse canzoni e poesie dall’inglese all’italiano.

Dopo la partenza della ragazza, casualmente, Milton viene a sapere dalla vecchia guardiana della casa di Fulvia che ella ha avuto una relazione con Giorgio Clerici, amico di entrambi e in quel momento militante nelle formazioni partigiane insieme a lui, non specificando, tuttavia, di che tipo di relazione si sia trattata. Milton, tormentato dal dubbio, inizia a cercare Giorgio per chiarire la vicenda, ma la situazione si complica quando viene a sapere che il rivale è stato catturato dai fascisti. Cosi a Canelli fa prigioniero un fascista per scambiarlo con Giorgio, ma egli tenta la fuga e Milton è costretto a sparargli.

Milton non perde le speranze e continua a cercare Giorgio, ma ad un tratto viene colto alla sprovvista da un gruppo di fascisti che lo segue sparando. Milton corre nella speranza che qualcuno lo colpisca alla testa per porre fine alle sue sofferenze, ad un certo punto gli si para davanti un bosco, lui ci si butta subito dentro ma dopo pochi passi crolla.

Personaggi

  • Milton, il protagonista, è un giovane ventenne, insicuro e poco socievole. Milton è innamorato di Fulvia
  • Fulvia, la ragazza amata da Milton, una giovane ragazza di Torino, sfollata per qualche tempo ad Alba
  • Giorgio Clerici, rivale in amore di Milton
  • Leo, comandante della formazione partigiana di Treiso
  • Hombre, partigiano della Stella Rossa
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Ultimo viene il corvo

ultimo viene il corvo

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Fenoglio “La malora”

LA    MALORA

È la storia di Agostino che, attraverso gli occhi dello stesso personaggio, racconta della sua famiglia, i Braida, poveri contadini delle Langhe, la cui vita è segnata dalla fame, dal duro lavoro sulla terra e dalla malora che, come un’ombra oscura da cui è impossibile liberarsi, guida il destino dei personaggi.
Immerso in avvenimenti tragici, quali la morte del padre, l’inutile lotta della famiglia di Tobia per emergere dalla propria condizione, la malattia del fratello chiuso in seminario, Agostino vive gli anni della giovinezza abbandonato alla triste sorte che il destino ha riservato per lui.
L’unica speranza che si accende in lui è l’amore per Fede, che però scompare quando ella è promessa in matrimonio dai genitori della ragazza ad un altro uomo.
L’unico sogno di Agostino rimane quello di tornare a lavorare la terra che era stata di suo padre: desiderio che in ultimo sarà realizzato, anche se il giovane non potrà più contare sulla presenza della madre poichè ella morirà poco dopo la morte del primogenito Emilio.<< non chiamarmi prima che io abbia chiuso gli occhi a mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami, se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza. E tutti noi che saremo lassù teniamo la mano sulla testa di Agostino, che è buono e s’è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo.>>
I personaggi sono vittime della malora e non ne possono scampare. La fame, la miseria, l’avidità, i lutti, le avversità atmosferiche e la sterilità del terreno decidono per loro.
Gli abitanti delle Langhe vivono in un mondo chiuso, un microcosmo i cui orizzonti sono, prima ancora di essere chiusi dalle colline, annullati dalla fatica, dal lavoro che, inizialmente principio fondante di civiltà, è divenuto veicolo d’annullamento di se stessi. I beni materiali divengono stimolo principale delle azioni, in quanto desiderio sempre presente, ma destinato a rimanere inappagato. E’ questo desiderio a spingere gli uomini a spezzarsi la schiena lavorando sui campi e a mangiare sempre meno la sera.
Grande merito di Fenoglio è la capacità di riportare la brutalità di quel mondo: rivivendo le situazioni nel momento stesso della scrittura, l’autore pare volerli raggiungere fisicamente fino a mettersi in contatto con la dimensione esistenziale del lavoro come annullamento di sé.
Leggendo il romanzo si scopre, da parte dell’autore, l’ansia di essere presente nel mondo descritto: la lingua utilizzata e i continui flashback sono strumenti letterari di cui Fenoglio si serve a questo scopo.
Nell’utilizzo di termini dialettali e gergali e di frasi fatte, la memoria dell’autore è in grado di far immaginare al lettore il mondo narrato, facendo uso di uno stile sobrio, essenziale, adatto alle caratteristiche del narratore: in questo caso di Agostino si può rilevare un livello culturale basso che spesso fa uso di un linguaggio scorretto.
Nell’opera pochissime sono le descrizioni di luoghi e persone, è come se non ci fosse il tempo per soffermarsi ad osservarli, pur riuscendo a scrutare tutto con gli occhi di chi è nato e sempre vissuto tra quella gente, cosciente anche di dover, un giorno, morirci. Le uniche eccezioni sono legate alle rare visite di Agostino ad Alba, la città nel cuore delle Langhe dove è descritto l’impatto con la vita cittadina, con i ragazzi, con gli edifici, con il seminario, con la farmacia del padrone: sono brani forse eccessivi che paiono quasi stridere, se confrontati con la sintesi che caratterizza il resto del libro. Ma è proprio in questi brani, nel desiderio di fare percepire la descrizione, filtrata attraverso gli occhi di Agostino, che si avverte l’ansia di Fenoglio di prendere le distanze dalla propria città e di sentirsi, così, solo interprete del mondo contadino.
Nelle prime pagine del romanzo domina un lungo flashback che si apre con il ricordo della morte del padre. Esso prosegue, poi, con il racconto degli eventi che hanno caratterizzato la vita di Agostino e, infine, solo nelle ultime righe, si torna al tempo presente, narrando l’abbandono del lavoro servile da parte del protagonista e il ritorno dalla propria madre. Sono così descritti eventi su eventi, dichiarazioni dell’incapacità di modificare la vita; non si segue una storia lineare, si continua con disordine come volersi sfogare dall’ansia di una realtà di una vita fatta di sofferenza. Questo affluire di parole senza tregua imprigiona il lettore, facendolo entrare nel mondo descritto dal romanzo.
Se a ciò si aggiunge che la narrazione inizia con il funerale del padre e si chiude con la preghiera della madre di morire, dopo avere chiuso per sempre gli occhi al suo terzogenito Emilio, si può cogliere benissimo la capacità di Fenoglio di far trasparire sul piano fisico della lettura la malora, elemento che regola la vita di questo paese.
Agostino alla fine della vicenda rimarrà solo al mondo: l’ultimo ostacolo da superare, il più difficile, è quello della solitudine. Dinanzi ad essa Agostino, grazie all’esperienza forte del dolore, probabilmente continuerà a resistere.

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FENOGLIO: VITA

Vedi: http://centrostudibeppefenoglio.it/it/categorie/1-7/beppe-fenoglio/la-vita

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LIBERTA’-Verga

LIBERTÀ

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: « Viva la libertà! ».
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
– A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Aicappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze deicappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io. – Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedete arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: – Sta’ tranquilla che non ne esce più. – Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!…
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…

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Mezzogiorno alpino

Mezzogiorno Alpino

Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘I granito
Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.
Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L’acqua che tenue tra i sassi fluí.

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Pianto antico

Pianto antico

 

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

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IL BOSCO DEGLI ANIMALI-CALVINO

Il bosco degli animali

I giorni di rastrellamento, al bosco sembra che ci sia la fiera. Tra i cespugli e gli alberi fuori dai

sentieri è un continuo passare di famiglie che spingono la mucca od il vitello, e vecchie con la capra

legata a una corda, e bambine con l’oca sotto il braccio. C’è chi addirittura scappa coi conigli.

Da ogni parte si vada, più i castagni son fitti, più si incontrano panciuti bovi e scampananti

mucche che non sanno come muoversi per quei dirupati pendii. Meglio ci si trovano le capre, ma i

più contenti sono i muli che una volta tanto posson muoversi scarichi, brucando cortecce per i

viottoli. I maiali vanno per grufolare in terra e si pungono coi ricci tutto il grugno; le galline

s’appollaiano sugli alberi e fanno paura agli scoiattoli; i conigli che in secoli di stalla hanno

disimparato a scavar tane, non trovano di meglio che cacciarsi dentro il cavo degli alberi. Alle volte

s’incontrano coi ghiri che li mordono.

Quella mattina il contadino Giuà Dei Fichi, stava facendo legna in un remoto angolo del bosco.

Non sapeva nulla di quel che succedeva al paese, perché n’era partito la sera del giorno prima con

l’intento d’andare per funghi la mattina presto e aveva dormito in un casolare in mezzo al bosco,

che serviva, d’autunno, a essiccare le castagne.

Perciò mentre menava colpi d’accetta contro un tronco morto, fu sorpreso a sentire, lontano e

vicino per il bosco, un vago rintoccare di campani. S’interruppe e udì delle voci avvicinarsi. Gridò:

Ooo-u!

Giuà Dei Fichi era un ometto basso e tondo, con una faccia da lunapiena nerastra di pelo e

rubizza di vino, portava un verde cappello a pan di zucchero con una penna di fagiano, una camicia

a grandi pallini gialli sotto il gilecco di fustagno, e una sciarpa rossa intorno alla pancia a pallone

per sostenergli i pantaloni pieni di toppe turchine.

– Ooo-u! – gli risposero e apparve tra le rocce verdi di licheni un contadino coi baffi e il cappello

di paglia, suo compare, che si portava dietro un caprone dalla barba bianca.

– Cosa fai qui, Giuà, – gli disse il compare, – sono arrivati i tedeschi al paese e girano tutte le

stalle!

– Ohimè di me! – gridò Giuà Dei Fichi. – Troveranno la mia mucca Coccinella e la porteranno

via!

– Corri che forse fai ancora in tempo a nasconderla, – lo consigliò il compare. – Noi abbiamo visto

la colonna che saliva in fondovalle e siamo subito scappati. Ma può darsi che ancora non siano

arrivati a casa tua.

Giuà lasciò legna, accetta e cestino dei funghi e corse via.

Correndo per il bosco s’imbatteva in file d’anatre che gli scappavano starnazzando di tra i piedi,

e in greggi di pecore che marciavano compatte fianco a fianco senza lasciargli il passo, e in ragazzi

e in vecchine che gli gridavano: – Sono arrivati già alla Madonnetta! Stanno frugando le case sopra

il ponte! Li ho visti girare la svolta prima del paese! – Giuà Dei Fichi s’affrettava con le corte

gambe, rotolando come una palla giù per i pendii, guadagnando le salite a cuore in gola.

Corri e corri, arrivò a un gomito di costone donde s’apriva la vista del paese. C’era un gran

spaziare d’aria mattiniera e tenera, uno sfumato circondario di montagne, e in mezzo il paese di case

ossute e accatastate tutte pietre e ardesia. E nell’aria tesa veniva dal paese un gridare tedesco e un

battere di pugni contro porte.

«Ohimè di me! ci sono già i tedeschi nelle case!» Giuà Dei Fichi tremava tutto nelle braccia e

nelle gambe: un po’ di tremito ce l’aveva di natura per via del bere, un po’ gli veniva adesso a

pensare alla mucca Coccinella, unico suo bene al mondo, che stava per venir portata via.

Quatto quatto, tagliando per i campi, tenendosi al coperto dietro i filari delle vigne, Giuà Dei

Fichi s’avvicinò al paese. La sua casa era una delle ultime ed esterne, là dove il paese si perdeva

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negli orti, in mezzo a un dilagar verde di zucche: poteva darsi che i tedeschi non fossero arrivati

ancora lì. Giuà facendo capolino dai cantoni cominciò a scivolare nel paese. Vide una strada vuota

coi consueti odori di fieno e di stallino, e questi nuovi rumori che venivano dal centro del paese:

voci disumane e passi ferrati. La sua casa era lì: ancora chiusa. Era chiusa sia la porta della stalla a

pianterreno sia quella delle stanze, in cima alla consunta scala esterna, tra cespi di basilico piantati

dentro pentole di terra. Una voce dall’interno della stalla disse: – Muuuuuu.. – Era la mucca

Coccinella che riconosceva l’avvicinarsi del padrone. Giuà si rimescolò di contentezza.

Ma ecco che sotto un archivolto si sentì rimbombare un passo umano: Giuà si nascose nel vano

di una porta tirando indietro la pancia rotonda. Era un tedesco dall’aria contadina, coi polsi e il collo

allampanati che sporgevano dalla corta giubba, le gambe lunghe lunghe e un fucilaccio lungo

quanto lui. S’era allontanato dai compagni per veder di cacciare qualcosa per suo conto; e anche

perché le cose e gli odori del paese gli ricordavano cose e odori noti. Così andava fiutando l’aria e

guardando intorno con una gialla faccia porcina sotto la visiera dello schiacciato cheppì. In quella

Coccinella disse: – Muuuu… – Non capiva come mai il padrone non arrivasse ancora. Il tedesco ebbe

un guizzo in quei suoi panni striminziti e si diresse subito alla stalla; Giuà Dei Fichi non respirava

più.

Vide il tedesco che s’accaniva a dar calci alla porta: presto l’avrebbe sfondata, di sicuro. Giuà

allora scantonò e passò dietro la casa, andò al fienile e prese a rovistare sotto il fieno. C’era nascosta

la sua vecchia doppietta da caccia, con una fornita cartuccera. Giuà caricò il fucile con due

pallottole da cinghiale, si cinse la pancia con la cartuccera e quatto quatto, a fucile spianato, andò a

appostarsi all’uscita della stalla. Già il tedesco stava uscendo tirandosi dietro Coccinella legata ad

una fune. Era una bella mucca rossa a macchie nere e perciò si chiamava Coccinella. Era una mucca

giovane, affettuosa e puntigliosa: ora non voleva lasciarsi portar via da quest’uomo sconosciuto, e

s’impuntava; il tedesco la doveva spinger via per il garrese.

Nascosto dietro un muro Giuà Dei Fichi mirò. Ora bisogna sapere che Giuà era il cacciatore più

schiappino del paese. Non era mai riuscito a centrare, manco per sbaglio, non dico una lepre ma

nemmeno uno scoiattolo. Quando sparava ai tordi al fermo, quelli manco si muovevano dal ramo.

Nessuno voleva andare a caccia con lui perché impallinava il sedere dei compagni. Non aveva mira

e gli tremavano le mani. Figuriamoci adesso, tutto emozionato com’era!

Puntava, ma le mani gli tremavano e la bocca della doppietta continuava a girare in aria. Faceva

per mirare al cuore del tedesco e subito gli appariva il sedere della mucca sul mirino. «Ohimè di

me! – pensava Giuà, – e se sparo al tedesco e uccido Coccinella?» E non s’azzardava a tirare.

Il tedesco s’avanzava a stento con questa mucca che sentiva la vicinanza del padrone e non si

lasciava trascinare. S’accorse a un tratto che i suoi commilitoni avevano già sgombrato il paese e

scendevano per lo stradone. Il tedesco s’accinse a raggiungerli con quella testarda mucca dietro.

Giuà li seguiva a distanza, saltando dietro le siepi e i muretti e puntando ogni tanto il fucilaccio. Ma

non riusciva a tener ferma l’arma e il tedesco e la mucca eran sempre troppo vicini l’uno all’altra

perché lui s’azzardasse a far partire un colpo. Che se la dovesse lasciar portare via?

Per raggiungere la colonna che s’allontanava, il tedesco prese una scorciatoia per il bosco.

Adesso riusciva più facile a Giuà tenergli dietro nascondendosi tra i tronchi. E forse ora il tedesco

avrebbe proceduto più discosto dalla mucca in modo che fosse possibile tirargli.

Una volta nel bosco Coccinella parve perdere la riluttanza a muoversi, anzi, poiché il tedesco tra

quei viottoli si raccapezzava poco, era lei a guidarlo e a decidere nei bivi. Non passò molto e il

tedesco s’accorse che non era sulla scorciatoia dello stradone ma in mezzo al bosco fitto: in una

parola s’era smarrito insieme a quella mucca.

Graffiandosi il naso nei roveti e finendo a piè pari nei ruscelli Giuà Dei Fichi gli teneva dietro,

tra frulli di scriccioli che prendevano il volo e sgusciar di ranocchi dei pantani. Prendere la mira in

mezzo agli alberi era ancor più difficile, a farla passare attraverso tanti ostacoli e con quella groppa

rossa e nera tanto estesa che gli si parava sempre sotto gli occhi.

Il tedesco già guardava con paura il bosco fitto, e studiava come poteva fare a uscirne, quando

udì un fruscio in un cespuglio di corbezzoli e sbucò fuori un bel maiale rosa. Mai al suo paese aveva

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visto maiali che girassero nei boschi. Mollò la corda della mucca e si mise dietro al maiale.

Coccinella appena si vide libera s’inoltrò trotterellando per il bosco, che sentiva pullulare di

presenze amiche.

Per Giuà era venuto il momento di sparare. Il tedesco s’affaccendava intorno al porco,

l’abbracciava per tenerlo fermo, ma quello gli sgusciava via.

Giuà era lì lì per schiacciare il grilletto, quando gli apparvero vicini due bambini, un maschietto e

una piccina, coi berrettini di lana a pon-pon e le calze lunghe. I bambini avevano i lucciconi in pelle

in pelle: – Tira bene, Giuà, mi raccomando, – dicevano, – se ci ammazzi il maiale non ci resta più

nulla! – A Giuà Dei Fichi quel fucile nelle mani riprese a ballar la tarantella: era un uomo di cuore

troppo tenero e s’emozionava troppo, non perché doveva ammazzare quel tedesco ma per il rischio

che correva il maiale di quei due poveri bambini.

Il tedesco rotolava contro pietre e cespugli con quel maiale tra le braccia che si dibatteva e

gridava: – Ghiii… ghiii… ghiii… – A un tratto ai gridi del maiale rispose un – Bee‚… – e da una grotta

uscì un agnellino. Il tedesco lasciò scappare il porco e si mise dietro all’agnellino. Strano bosco,

pensava, con maiali nei cespugli e agnelli nelle tane. E acchiappato per una zampa l’agnellino che

belava a perdifiato se lo issò in spalla come il Buon Pastore, ed andò via. Giuà Dei Fichi lo seguiva

quatto quatto. “Stavolta non scappa. Stavolta c’è”, diceva e già stava per tirare, quando una mano

gli alzò la canna del fucile. Era un vecchio pastore con la barba bianca, che giunse le mani verso di

lui dicendo: – Giuà, non mi ammazzare l’agnellino, uccidi lui ma non mi ammazzare l’agnellino.

Mira bene, una volta tanto, mira bene! – Ma Giuà ormai non capiva più niente, e non trovava

nemmeno il grilletto.

Il tedesco andando per il bosco faceva scoperte da restar a bocca aperta: pulcini sopra gli alberi,

porcellini d’India che facevano capolino dal cavo dei tronchi. C’era tutta l’arca di Noè. Ecco che su

un ramo di pino vide posato un tacchino che faceva la ruota. Subito, alzò la mano per pigliarlo, ma

il tacchino, con un piccolo salto, andò ad appollaiarsi su un ramo del palco più alto, sempre

continuando a far la ruota. Il tedesco, lasciando l’agnello, cominciò ad arrampicarsi su quel pino.

Ma ogni palco di rami che lui saliva, il tacchino andava su d’un altro palco, senza scomporsi,

impettito e coi penduli bargigli fiammeggianti.

Giuà avanzava sotto l’albero con un ramo frondoso sulla testa, altri due sulle spalle e uno legato

alla canna del fucile. Ma arrivò una giovane grassottella con un fazzoletto rosso intorno al capo. –

Giuà, – disse, – stammi a sentire, se ammazzi il tedesco io ti sposo, se m’ammazzi il tacchino ti

taglio le budella -. Giuà che era anziano ma scapolo e pudico, diventò tutto rosso e il fucile gli

ruotava davanti come un girarrosto.

Il tedesco salendo era arrivato ai rami più sottili, finché uno non gli si spezzò sotto i piedi e lui

cascò. Per poco non finì addosso a Giuà Dei Fichi, che questa volta ebbe occhio e scappò via. Ma

lasciò per terra tutti i rami che lo nascondevano, così il tedesco cadde sul morbido e non si fece

niente.

Cadde e vide una lepre sul sentiero. Ma non era una lepre: era panciuta e ovale e sentendo

rumore non scappò, ma s’appiattì per terra. Era un coniglio e il tedesco lo prese per gli orecchi.

Avanzava così col coniglio che squittiva e si contorceva in tutti i sensi e lui era costretto per non

farselo scappare a saltare in qua e in là col braccio alzato. Il bosco era tutto muggiti e belati e

coccodé: a ogni passo si facevano nuove scoperte d’animali: un pappagallo su un ramo d’agrifoglio,

tre pesci rossi sguazzanti in una polla.

A cavalcioni d’un alto ramo d’una annosa quercia Giuà seguiva la danza del tedesco col coniglio.

Ma era difficile prenderlo di mira perché il coniglio cambiava continuamente posizione e capitava

in mezzo. Giuà si sentì tirare per un lembo del gilecco: era una ragazzina con le trecce e la faccia

lentigginosa: – Non uccidermi il coniglio, Giuà, se no è lo stesso che me lo porti via il tedesco.

Intanto il tedesco era arrivato a un posto tutte pietre grige, ròse da licheni azzurri e verdi. Solo

pochi pini scheletriti crescevano intorno, e vicino s’apriva un precipizio. Nel tappeto d’aghi di pino

che giaceva in terra, stava razzolando una gallina. Il tedesco fece per rincorrere la gallina e il

coniglio gli scappò.

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Era la gallina più magra, vecchia e spennacchiata che mai si fosse vista. Apparteneva a Girumina,

la vecchia più povera del paese. Il tedesco l’ebbe presto tra le mani.

Giuà s’era appostato in cima a quelle rocce e aveva costruito un piedestallo di pietre per il suo

fucile. Anzi aveva messo su proprio la facciata d’un fortino, con solo una stretta feritoia per far

passare la canna del fucile. Adesso poteva sparare senza scrupoli, ché se anche ammazzava quella

gallina spennacchiata era mal di poco. Ma ecco che la vecchia Girumina, raggomitolata in scialli

neri e cenciosi, lo raggiunse e gli fece questo ragionamento: – Giuà, che i tedeschi mi portino via la

gallina, unica cosa che mi resti al mondo, è già triste. Ma che sia tu che me l’ammazzi a fucilate è

più triste ancora.

Giuà riprese a tremare più di prima, per la gran responsabilità che gli toccava. Pure si fece forza e

schiacciò il grilletto.

Il tedesco sentì lo sparo e vide la gallina che gli starnazzava in mano restare senza coda. Poi un

altro colpo, e la gallina restare senza un’ala. Era una gallina stregata, che esplodeva ogni tanto e gli

si consumava in mano? Un altro scoppio e la gallina fu completamente spennata, pronta per andare

arrosto, e pure continuava a starnazzare. Il tedesco che cominciava a esser preso dal terrore la

teneva per il collo discosta da sé. Una quarta cartuccia di Giuà le troncò il collo proprio sotto la sua

mano e lui rimase con la testa in mano che si muoveva ancora. Buttò via tutto e scappò via. Ma non

trovava più sentieri. Vicino a lui s’apriva quel roccioso precipizio. Ultimo albero prima del

precipizio era un carrubo e sui rami del carrubo il tedesco vide rampare un grosso gatto.

Ormai non si stupiva più di vedere animali domestici sparsi per il bosco e avanzò la mano per

accarezzare il gatto. Lo prese per la collottola e sperava di consolarsi a sentirlo far le fusa.

Ora bisogna sapere che quel bosco era da tempo infestato da un feroce gatto selvatico che

uccideva i volatili e talvolta si spingeva fino al paese nei pollai. Così il tedesco che credeva di sentir

fare ronron, si vide precipitare il felino contro a pelo dritto e arruffato e sentì le sue unghie farlo a

brani. Nella zuffa che seguì l’uomo e la belva rotolarono ambedue nel precipizio.

Fu così che Giuà, tiratore schiappino, fu festeggiato come il più grande partigiano e cacciatore

del paese. Alla povera Girumina fu comprata una covata di pulcini a spese della comunità.

 

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